
Serve il lavoro agile per correre un’ultramaratona?
Anni fa, in Nestlé, ho ideato il progetto Comunità Emozionali. Aveva l’obiettivo di coinvolgere le persone, attivando comunità diverse da quelle che tradizionalmente si creano in azienda, come quelle che nascono tra professionalità simili o per l’appartenenza a stesse aree geografiche.
Il progetto venne presentato con una grande festa, in cui a sorpresa alcune persone tra la folla, con un microfono, raccontarono le loro storie personali.
Una donna si presentò come ultramaratoneta. Per passione correva le maratone superiori ai 41 km, in cui otteneva grandi successi. Questa sua passione richiedeva impegno, molto tempo per la preparazione atletica e ricorrenti assenze dal lavoro per partecipare alle maratone in giro per il mondo. Il suo messaggio fu: «Io sono una manager con grandi responsabilità e sono anche una maratoneta. Io mi compongo di questi due aspetti, che voglio tenere insieme. Non devo essere costretta a scegliere tra uno e l’altro. Voglio tutto».
Nestlé aveva imparato già da anni a rispondere alla sua richiesta, introducendo il lavoro agile e lavorando con massima flessibilità d’orario. Oggi è ancora una delle aziende con le policy di lavoro agile più avanzate al mondo.
Il punto su cui voglio portare l’attenzione ora però è che il “voglio tutto” della donna evocò in me il “voglio tutto” gridato anni prima nella stessa azienda, nella riunione che diede il via proprio alle sperimentazioni di lavoro agile. Ma ora stava emergendo un livello nuovo, più sofisticato.
Il tutto che le donne chiedevano anni prima era un appello disperato alla sopravvivenza, alla conciliazione di base, per tenere insieme impegni di vita personale - cura di bambinə e parenti - e lavoro. E questo appello era stato compreso dalla società e pian piano fatto proprio dalle aziende. Era il work-life balance, inteso come possibilità di tenere in equilibrio il lavoro e gli impegni di cura della vita personale.
Qui invece la donna chiedeva sì di tenere insieme tutto, ma di non valutare la parte del tutto che per lei era essenziale. E che per lei era lo sport.
E qui arriva la mia riflessione.
È risaputo che lo sport fa bene. Lo sappiamo: per ogni tre euro investiti nello sport il sistema sanitario nazionale ne risparmia uno.
Eppure, nella cultura aziendale, lo sport non ha sufficiente dignità per essere considerato esigenza vitale su cui costruire il proprio personale work-life balance.
Nella quotidianità dell’ufficio accettiamo che una persona si stacchi dal lavoro per andare a prendere i figli o le figlie a scuola, ma facciamo ancora fatica a giustificarla se nello stesso lasso di tempo ci comunica che sta andando in piscina.
Quindi oggi siamo nella situazione in cui il lavoro agile è ancora una volta la risposta alle esigenze vitali delle persone; e in questo caso diventa anche modalità organizzativa per sostenere il diritto allo sport.
Ma ciò che serve veramente ora è ridare allo sport la dignità di parte essenziale della vita delle persone.
E riproporlo nella discussione pubblica come elemento centrale della qualità della vita.
Con una visione che tenga insieme le politiche urbanistiche delle città - dove gli impianti per lo sport di base sono sempre il fanalino degli investimenti - le politiche sociali con cui promuovere l’inclusione e l’incontro, le politiche sanitarie che sostengano attraverso la medicina di base lo sport per tuttə.
Il lavoro agile può aiutare le persone a fare sport, ma è la nostra profonda comprensione del valore dello sport stesso a fare la differenza.