QUANDO LE BELLE PAROLE NON BASTANO PIÙ
Negli ultimi anni, l’attivismo di marca è diventato un tema centrale nelle strategie di marketing, con molte aziende che hanno abbracciato cause sociali per connettersi con i consumatori e le consumatrici su un piano più profondo e valoriale. Tuttavia, sta emergendo una nuova tendenza: l’attivismo da parte dei brand sembra non essere più efficace come una volta nel generare vendite e costruire fedeltà a lungo termine.
Il brand activism ha visto una crescita esponenziale nell’ultimo decennio, raggiungendo il suo apice durante la presidenza Trump. Campagne di successo, come quella di Dove per la “Real Beauty” e la controversa pubblicità di Nike con Colin Kaepernick, sono esempi emblematici di come l’attivismo di marca possa generare non solo vendite, ma anche visibilità e miglioramento della reputazione. Anche in Italia, negli ultimi anni si è registrata una significativa trasformazione nel rapporto tra imprese e individui, con questi ultimi che chiedono alle aziende di superare la mera ricerca del profitto e prestare maggiore attenzione al benessere della società.
Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Civic Brands - progetto di Ipsos e Paolo Iabichino - una persona su due si dichiara attenta ai comportamenti sociali delle aziende. Tuttavia, in un periodo caratterizzato dal caro vita, si riscontra anche una maggior richiesta di supporto tangibile al consumo. Infatti, il 79% delle persone intervistate sostiene che le aziende dovrebbero in primis agire per frenare l’incremento dei prezzi, offrendo un aiuto reale.
L’attivismo di marca è in crisi?
Diciamolo con franchezza: il brand activism corre il rischio di diventare una moda, con la conseguenza che molte iniziative appaiano forzate o, addirittura, opportunistiche. Confrontando i dati raccolti nel 2021, si registra un aumento dello scetticismo in merito all’impegno di marca; infatti, il 56% lo considera solo come un modo per lavarsi la coscienza, con un incremento del 5%.
Le cause di questa maggiore freddezza verso il brand activism sono molteplici, ma proviamo a tracciarne alcune. L’inflazione, come visto prima, rende lo shopping basato su valori un lusso meno accessibile, inducendo le persone a preoccuparsi più della convenienza economica di un prodotto, che dei suoi aspetti etici e sociali.
Negli ultimi anni, vari brand hanno subito violente shitstorm a causa di messaggi considerati non allineati con le opinioni della maggioranza della propria clientela. Questo sentimento anti-woke è molto evidente negli Stati Uniti, in cui ci sono stati dei veri e propri boicottaggi, come quello a Bud Light in risposta a una campagna pubblicitaria che vedeva come testimonial un’influencer transgender.
E poi la questione della guerra a Gaza. Se su alcuni temi i brand sono riusciti facilmente a prendere posizione all’interno di un quadro progressista (sostegno al movimento Black Lives Matter, diritti LGBTQ+, aborto, ecc…), dopo il 7 ottobre il terreno di scontro è divenuto impraticabile.
Il ritiro degli attivisti e delle attiviste della pubblicità rispecchia un’inversione di tendenza nel sentimento pubblico? È la fine dell’impegno di marca? No, ma si sta sicuramente avvicinando la fine di un certo attivismo di facciata. Solo le aziende che hanno nel proprio DNA una genuina attenzione alle cause sociali o ambientali, che dimostrano un impegno autentico e duraturo, sia all’interno che all’esterno della propria organizzazione, saranno in grado di mantenere alta la fiducia del pubblico, ottenendo così un impatto positivo sia in termini economici e reputazionali, che sociali.