Quando il gioco si fa serio

Rubrica CI PENSO SU
A cura di Riccardo Basso
19 Mar 2025

Lo sport è spesso legato al concetto di gioco: i Giochi Olimpici, il gioco del calcio, giocare a tennis. Parlare di sport ci sollecita allora una riflessione sul gioco.

Il gioco è una cosa seria. J. Huizinga ha dedicato una delle sue opere più celebri, Homo ludens, alle radici e al significato antropologici del gioco. Per Huizinga il gioco è un’attività separata dalla vita ordinaria, con proprie regole, riti, simboli e fornisce il substrato simbolico per gran parte delle attività sociali: la politica, la guerra, la religione, l’arte, l’amministrazione della giustizia. Anche lo sport si può ascrivere al gioco, in quanto attività fuori dall’ordinario del quotidiano, con proprie regole e finalità; e nello sport vengono agiti, rappresentati, premiati i valori che di volta in volta si dà una società: l’ordine, la competizione, la disciplina del corpo, l’impegno, il rispetto delle regole, la creatività, ad esempio. Ma già nel 1946, anno di pubblicazione di Homo ludens, Huizinga avvertiva che lo sport andava perdendo il suo carattere di gioco: l’organizzazione tecnica, la professionalizzazione esasperata, l’assorbimento della pratica sportiva in modelli di business, la pressione del pubblico avrebbero fatto perdere – secondo Huizinga – gran parte del carattere spontaneo, libero, ludico allo sport: «A poco a poco nella società moderna lo sport si allontana dalla pura sfera del gioco e diventa un elemento sui generis, non più gioco ma nemmeno serietà». Un punto centrale - che sempre Huizinga sottolineava - è l’esasperazione della competizione nella pratica sportiva, quale riflesso della crescente importanza della concorrenza quale fattore strutturante delle nostre società.

La competizione può essere un fattore di crescita personale e sociale importante: il problema è quando essa diventa il principale fattore, quando struttura tutti gli aspetti della vita collettiva. Per preservare la preziosa radice ludica dello sport è allora necessario arginare l’esasperazione dello spirito competitivo. Più in generale, occorre evitare che lo sport diventi un dispositivo biopolitico con il quale si convogliano – facendoli sembrare naturali – valori che nulla hanno a che vedere col gioco, la creatività, il fare comunità: la vittoria a tutti i costi, la performance come unico parametro di misurazione del successo, il denaro come forma principale di riconoscimento, il corpo inteso come macchina da rendere il più efficiente possibile, per citare alcune delle derive a cui spesso assistiamo.

Il costo dell’accesso alla pratica sportiva o allo spettacolo di eventi sportivi è un altro punto che merita attenzione. E non solo perché ci sono sport obiettivamente molto costosi, che non tutte le persone possono permettersi di praticare o guardare dal vivo. Ma anche perché – come ha messo in evidenza P. Bourdieu – le preferenze sportive riflettono strategie simboliche di distinzione sociale: lo sport verrebbe dunque fruito perché inaccessibile a chi non ha le dotazioni di capitale economico per accedervi. Il rischio è che una pratica che ha la vocazione di coinvolgere tutta la comunità diventi un elemento di discriminazione.

Tutti questi pericoli, che rischiano di snaturare completamente la natura ludica dello sport, devono essere stati presenti ai redattori della Carta dei diritti dei bambini nello sport, introdotta in Norvegia. In base a questa Carta, le competizioni sportive cui partecipano bambine e bambini fino a 10 anni non possono terminare con graduatorie; se sono previsti premi, fino all’età di 12 anni ogni partecipante deve riceverne uno. Sono regole volte a difendere la dimensione giocosa dello sport in un’età fondamentale per la formazione delle future persone adulte. Esse includono anche indicazioni sull’accesso alle pratiche sportive, che non dovrebbe essere influenzato dalla situazione finanziaria della famiglia di appartenenza.

Questa Carta, di cui consiglio la lettura, ci dimostra come sia possibile far convivere in maniera generativa gioco, espressione e sperimentazione creative di sé, competizione, senso di comunità, rispetto delle regole, autodeterminazione e partecipazione alle decisioni collettive. È un testo scritto per bambine e bambini ma a mio avviso contiene spunti che possono ispirare anche chi lavora per dare forma agli assetti simbolici nei quali hanno luogo i giochi, più o meno seri, cui partecipano le persone adulte.

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