OLTRE BRAND ACTIVISM: E SE SEI UN’AZIENDA B2B?
Quando parliamo di brand activism, molt* di noi pensano probabilmente a marchi come Barilla o Enel e le loro campagne a favore dell’inclusività e dell’energia sostenibile.
Ma se un’azienda non serve i consumatori e le consumatrici finali, i famosi “C” del Business to Customer (B2C), e opera in un contesto di Business to Business (B2B), come si fa? Si può parlare ugualmente di brand activism?
Forse la domanda giusta da farsi non è se l’attivismo possa (e debba!) essere praticato anche dalle aziende B2B, ma come si può fare se il target sono lɜ attorɜ della catena del valore.
L’attivismo non è un’azione di potere, ma di influenza, e come tale si basa sulla costruzione di relazioni credibili e durature. Per un’azienda, questo significa “metterci la faccia” su questioni importanti, non solo quando conviene a livello di business. La credibilità sia verso lɜ propriɜ collaboratorɜ che verso lɜ stakeholders esternɜ è fondamentale e si costruisce rimanendo fedeli ai propri valori nel tempo.
Lavorando per una multinazionale americana e occupandomi di Diversità, Inclusione ed Equità per la regione EMEAI, ho spesso dovuto confrontarmi con un approccio diverso tra le due sponde dell’Atlantico riguardo alle sfide legate alla DEI.
Negli Stati Uniti è relativamente più semplice fare attivismo e lobbying per diritti e progressi anche se non è detto che si ottengano sempre i risultati sperati. La nascita del #BlackLivesMatter in seguito all’assassinio di George Floyd ne è un esempio, con molte società che hanno fatto dichiarazioni e azioni, anche se l’impatto a lungo termine è ancora da valutare. Tradurre questo approccio in un contesto europeo non è scontato.
Quindi, come si può fare brand activism nel B2B in Europa?
Può sembrare difficile, ma non è impossibile. Come detto, la credibilità è un fattore chiave così come la reputazione del brand, che deve avere un valore non tanto per lɜ consumatorɜ finali che non lo conoscono quanto per lɜ clienti, lɜ fornitorɜ e lɜ altrɜ partner esternɜ. Il valore, però, deve essere supportato anche da un business case, una giustificazione economica, per non cadere in qualche forma di “washing”.
Un esempio concreto è quello della logistica.
Secondo l’IRU (International Road Transportation Union), in Europa nel 2023 solo il 6% deɜ guidatorɜ di camion sono donne e c’è una carenza cronica di guidatorɜ. Aumentare la rappresentanza femminile è sia una questione di equità che una necessità economica. Questa soluzione strategica, richiede però l’impegno di tuttɜ: le imprese, i legislatori e le associazioni di categoria.
L’iniziativa “Women in Logistics” (www.women-in-logistics.eu), creata da brand B2B, è un esempio di come l’attivismo possa essere tradotto in azioni concrete.
Coinvolgere tuttɜ lɜ attorɜ della filiera e le associazioni di categoria, creare un consorzio per condividere best practices, come la promozione della flessibilità e della sicurezza sul lavoro (sì, anche in strada), sono azioni che creano un impatto positivo. Questo tipo di attivismo, sebbene diverso da quello tradizionale, è altrettanto significativo per l’industria.
In conclusione, fare brand activism in un contesto B2B richiede credibilità, coerenza e una chiara connessione tra valori e business case specifico. Coinvolgere tuttɜ gli attori e le attrici della catena del valore e promuovere azioni concrete e specifiche può portare a un cambiamento reale e duraturo.