
«Nella vita mi sono data da fare. Nonostante il cognome che porto»
Intervista a Daria Illy, l’imprenditrice che ha fatto del benessere la leva del proprio successo. «Su diversità, equità e inclusione l’Italia non farà mai marcia indietro».
«Fin da piccola mi sono interessata di sport e inclusione, dalla vita ho avuto molto e al momento giusto, capendo il valore delle cose, ma soprattutto dell’amore con cui trattiamo noi stessi. Alle superiori la mia migliore amica aveva una Polo nuova fiammante con tanto di autoradio, io una Micra nera di seconda mano. Quando chiesi alla mia famiglia il lettore CD mi risposero: “Se ne parla dopo la pagella”.
Oggi che sono madre li ringrazio per questo». Imprenditrice poliedrica, Daria Illy vanta un percorso professionale che va ben oltre il caffè e l’azienda di famiglia. Una doppia laurea in Scienze Motorie e della Nutrizione, ha fondato studi sul benessere, lavorato come consulente e docente e poi assunto ruoli manageriali in multinazionali del Food & Beverage e servizi B2B. Attualmente fa parte del comitato scientifico della piattaforma Reginae per la promozione della cultura italiana ed è testimonial di Azzurra Malattie Rare Onlus presso il Centro di eccellenza pediatrico Burlo Garofolo di Trieste.
Con un cognome così importante, è stato difficile riuscire a costruire un’identità personale?
Direi che mi sono guadagnata tutto, non grazie ma nonostante il cognome (sorride). E questo talvolta ha dato fastidio a chi vive di timbri, specie quando il mio sito di coach e personal trainer su Google era posizionato meglio di quelli branded. A me i «lei non sa chi sono io» sono sempre stati antipatici. Agli esami universitari mi registravo come “Illi”’ senza la y finale. Eppure non mancavano di chiedermi: «Illy come il caffè?». Dopo sedici anni nel fitness, la pubblicazione del libro Personal Training Business ha rappresentato un punto di arrivo, frutto della mia seconda tesi di laurea con lode. Insomma, non nego che a volte il cognome possa aiutare, ma solo una volta che ti sei fatta strada con le tue gambe. Lavorando nel settore alimentare, mi ha portato credibilità. Del resto un cognome come quello che porto impone responsabilità e – ahimé – talvolta è difficile essere riconosciute per quello che si è fatto autonomamente.
Qual è il filo rosso che lega le sue tante esperienze professionali?
Sono le persone. Interagire, gestire, includere. Stare bene e fare stare bene le altre persone. Sono diventata una spokesperson di punta, lasciando una traccia in ogni ruolo che ho ricoperto. Il passaggio al marketing e al general management mi ha entusiasmata. Ho partecipato a progetti formativi come Valore D, dedicato alla crescita delle donne con alto potenziale e i miei studi sul Personal Training sono ancora un punto di riferimento. Oggi insegno, sono Change Management Architect in vari settori e ho persino fatto l’attrice. Ho pubblicato un nuovo libro, La Grammatica del Caffè (Feltrinelli-Gribaudo), e passo sempre più tempo in Oman. Forse proprio da lì nascerà il mio prossimo progetto.
C’è stato un errore che oggi considera un momento chiave del suo percorso?
Più di uno, per fortuna. La prima cosa che ho imparato a Stanford, dove ho studiato Design Thinking, è stato che the sooner you fail, the sooner you learn: prima sbagli e prima impari. Le decisioni vanno sempre testate e soppesate negli effetti collaterali. È una lezione che ho appreso durante il mio primo Cda come amministratrice e direttrice esecutiva.
Per lei che ha lavorato in contesti diversi, cosa significano oggi diversità, equità e inclusione?
Sono tre parole in grado di generare benessere in qualunque contesto, perché non essere inclusivi significa avere dei pregiudizi. Non esistono le categorie, siamo solamente persone. Includere vuol dire creare ricchezza culturale, sociale ed economica.
Pensa che dopo le recenti campagne dell’amministrazione statunitense contro la DEI, ci sia il rischio di una retromarcia culturale anche in Italia?
Sinceramente no, l’Italia ha un bagaglio storico importante, basti pensare alla figura dell’insegnante di sostegno introdotta nel 1975.
Oggi tutti parlano di sostenibilità. Ma cosa significa davvero per un’azienda e che contributo concreto può dare?
Significa risparmiare risorse, adottare energie rinnovabili, praticare economia circolare, promuovere benessere e sicurezza sul lavoro.
La sostenibilità è tutto tranne che un bollino da esibire o un titolo da vantare. Sta nel buonsenso, nell’evitare che la crescita economica pesi sulle generazioni future.
Non si tratta di piantare alberi a caso: servono azioni che rispettino davvero l’ambiente e le persone.