Misurare il cambiamento, non solo raccontarlo

A cura di Elisa Belotti
13 Giu 2025


La sostenibilità e i fattori ESG sono sempre più al centro delle politiche aziendali, ma perché la trasformazione sia concreta serve uno sguardo critico e responsabile. Lo racconta Martina Rogato, founder & CEO di ESG Boutique e presidente di Human Rights International

In che modo la sostenibilità può stare in relazione con il business di un’impresa?

Un’azienda davvero sostenibile dovrebbe, innanzitutto, garantire il pagamento regolare degli stipendi alle proprie lavoratrici e lavoratori. È questa la conditio sine qua non della sostenibilità economica.

Una seconda condizione riguarda il profitto: un’impresa sostenibile non deve rinunciare al proprio utile, ma la massimizzazione del profitto non può avvenire a scapito delle persone o dell’ambiente. Quando parliamo di persone intendiamo sia le e i dipendenti, sia tutti gli altri stakeholder. Spesso si riduce il discorso a ciò che accade tra le mura aziendali, ma è fondamentale considerare anche l’impatto dell’impresa su chi vive intorno ad essa.

La sostenibilità non è solo ambientale, ma riguarda anche i diritti umani. 

Sempre più si parla di transizione giusta: non basta passare, per esempio, all’elettrico se le batterie sono prodotte con minerali provenienti da filiere di sfruttamento.

Per questo la sostenibilità è un nuovo modo di fare business e oggi non possiamo immaginare alternative diverse. Il Pianeta ci sta mandando un segnale forte: come si può ancora pensare di fare impresa senza adottare un approccio non solo di mitigazione ma anche di rigenerazione di fronte al danno ambientale?

La scienza ci dice che le soluzioni esistono, dobbiamo solo metterle in pratica. Anche perché l’Unione Europea prevede la creazione di oltre 60 milioni di posti di lavoro legati ai green e blue jobs. L’innovazione sostenibile non è più una possibilità futura, è l’unico presente possibile.

Nel suo lavoro ha a che fare con realtà molto diverse tra loro: quali sono gli elementi che fanno la differenza tra un approccio autentico alla sostenibilità e uno puramente formale?

Possiamo, in quanto cittadine e cittadini consapevoli, esercitare uno sguardo critico, ponendoci alcune domande chiave.

1. Come si racconta l’approccio alla sostenibilità? Si basa su affermazioni generiche oppure su dati concreti, iniziative documentate, risultati misurabili e KPI precisi?

2. Si tratta di azioni sporadiche o di un approccio sistemico? L’azienda ha del personale formato e dedicato a questi temi? C’è almeno una persona, un team, un comitato strategico, una policy, un piano d’azione a medio termine? Oppure la sostenibilità è gestita da figure riciclate da altri ambiti, come le risorse umane o il marketing?

Un’altra domanda importante è: a chi risponde la persona che si occupa di sostenibilità? Se fa riferimento alla comunicazione, avrà margini più ridotti. Ma se risponde direttamente all’amministratrice o amministratore delegato, allora il suo potere di incidere su tutta la catena del valore è ben più significativo.

3. Esiste una pianificazione strategica? L’azienda ha misurato i propri impatti e fissato degli obiettivi? E i progetti sono tutti di tipo ambientale? Se la risposta è sì, è il caso di farsi qualche domanda: un approccio alla sostenibilità che ignora l’aspetto sociale e quello di governance è, per definizione, incompleto.

L’adozione di politiche ESG può davvero migliorare il rapporto tra azienda e società civile? In che modo può influenzare la vita delle persone coinvolte, direttamente o indirettamente, nel lavoro di un’impresa?

In alcuni contesti, le aziende sono diventate più potenti degli Stati. Quando un’impresa delocalizza, ad esempio, ha un impatto enorme: porta lavoro ma incide profondamente sulla vita delle comunità locali. Esistono infatti situazioni in cui gli Stati hanno ceduto terre indigene alle aziende per motivi economici, generando gravi ingiustizie sociali e violazioni del diritto internazionale. Lo mostra bene il portale del Business & Human Rights Resource Centre.

Ci sono però anche delle soluzioni, sia normative che culturali. Sul piano normativo, dopo anni di denunce e abusi, le Nazioni Unite stanno lavorando a un trattato vincolante su imprese e diritti umani, destinato agli Stati, ma volto a prevenire le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese che operano nei loro territori. Questo è cruciale, perché spesso – nelle catene del valore più lunghe – le aziende delocalizzano senza portare con sé il livello di rispetto dei diritti umani vigente nel Paese d’origine, approfittando di contesti opachi, con scarsa governance o tutele deboli. Le nazioni europee hanno quindi il dovere di agire anche in contesti extraterritoriali, per far avanzare cause di giustizia sociale e territoriale.

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