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LUCI E OMBRE DA “IL FEMMINISMO NON È UN BRAND” DI JENNIFER GUERRA

A cura di Gianluca Cabula
18 Ott 2024

Il femminismo non è un brand, Jennifer Guerra ammonisce, anzi ci ammonisce: perché a essere chiamato in causa è proprio il mondo delle aziende, colpevole, in nome del profitto e del mercato, di intestarsi abusivamente una battaglia che è e dovrebbe rimanere rivoluzionaria.

Anticipo che forse è proprio questo, nel suo manicheismo, l’assunto più debole di un libro che per il resto ha un grosso merito: quello di leggere e illuminare le ambivalenze, di cui la quarta, nuova, ondata del movimento femminista è portatrice.

Solo per citarne alcune: è vero che l’attivismo social è una finzione dell’impegno e rende volatili e volubili i messaggi, ma sarebbe stato possibile altrimenti un risveglio di così ampia portata sull’argomento, con ricadute anche molto reali sulle reti organizzative e sulle manifestazioni di piazza? È vero che il #metoo ha avuto un valore straordinario di denuncia e di presa di coscienza collettiva, ma non ha finito per addebitare alle donne, almeno nell’immaginario, la responsabilità di una resilienza quasi “necessaria” dopo la violenza?

È vero, ancora, che la dottrina dell’empowerment femminile ha voluto trovare, laddove mancavano, dei role-model di successo, ma non si è tradotta alla fine in un’ansia performativa per le donne, nell’applicazione di quell’odioso se-vuoi-puoi, incurante dei punti di partenza e dei sistemi di potere? Arrivando a supporre la possibilità di trasferire competenze dalla maternità all’ufficio, non abbiamo trasformato addirittura il rientro al lavoro in un ennesimo banco di prova?

Sono molte le riflessioni che Guerra fa sorgere, in un percorso polemico che è solido e ben documentato. Il discorso diventa invece più accidentato quando si fa ideologico, quando intende presentare il capitalismo, di cui il femminismo sarebbe una pericolosa, ultima, trasmutazione, come un monolite senza sfaccettature, un apparato di persone dall’identità evidentemente molto piatta, che agiscono in un vuoto di valori e di simboli. Senza considerare che anche nel sistema economico, anche dentro le aziende – piccole città se vogliamo – si può fare molto, e molto seriamente, per l’equità e l’uguaglianza, talvolta anche con la libertà di superare i limiti della politica.

L’intero capitolo dei diritti sul lavoro, del welfare, dell’uguaglianza retributiva, è un mondo che nelle aziende si vive e che Guerra non vede, concentrata solo sui profili del marketing (le donne come “consumatrici”) e della comunicazione (la dilagante presenza esterna, a coprire talvolta pochi impegni concreti).

Penso che per fare passi avanti sia giunta l’ora di deporre i sospetti reciproci e considerare piuttosto l’attivismo come un poliedro dalle molte facce, non necessariamente comunicanti, dove ognuno e ognuna può dare – dove può, come può – il proprio contributo. Cercando di cambiare in meglio la propria vita e, se possibile, quella degli altri, delle altre.

Il femminismo come “conversione”, quindi, secondo la definizione insuperabile di Lea Melandri, citata nelle prime pagine del libro.

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