La biomeccanica: allenare i corpi attoriali

Rubrica OPHELIA
A cura di Anna Toffaloni
19 Mar 2025

Il training attoriale nel teatro è assolutamente fondamentale. Spesso si ha una percezione poco seria del lavoro attoriale (e, aggiungerei, del lavoro artistico in generale), come se si trattasse più di una forma d’essere, un talento naturale o una capacità frutto di ispirazione. Sull’importanza del talento non ci sono dubbi. Tuttavia, come chi fa musica di professione deve esercitarsi diverse ore al giorno per continuare a suonare con qualità e creatività, e chi fa sport deve agire lo stesso con la propria disciplina (e Artaud diceva che ogni attore è un “athlète du cœur”), l’attrice professionista deve allenarsi. Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret, sosteneva che: «Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono». 

Esistono moltissimi tipi di training teatrale, ma qui mi piacerebbe parlare della biomeccanica, un metodo che ha avuto una grandissima influenza nel campo della formazione attoriale contemporanea. 

Il padre della biomeccanica è Vsevolod Mejerchol’d, un regista russo che dopo aver lavorato con Stanislavskij nel 1920 arrivò a fondare un teatro proprio. Nel 1938, in seguito all’irrigidimento delle politiche artistiche del regime sovietico, il teatro venne chiuso, e l’anno dopo lo stesso Mejerchol’d venne arrestato e, dopo un processo farsa, giustiziato. Per questo motivo, chi si è occupato di diffondere questo metodo a partire dagli anni ’70 circa sono stati alcuni suoi collaboratori e collaboratrici. 

Cos’è la biomeccanica? A livello teorico, si basa sul concetto taylorista di movimento efficiente e sull’idea che si può generare uno stato d’animo a partire da uno stato fisico e che fra movimento e pensiero esiste una relazione fondamentale. Si tratta di un allenamento ideato per preparare l’attrice ad affrontare la sfida rappresentata da quell’apparente contraddizione che per Mejerchol’d stava alla base del lavoro attoriale: la capacità di improvvisare e il potere di restringersi, di preservare, cioè, la propria creatività e la struttura della messa in scena al tempo stesso. Una sessione di training di questo tipo consisteva in una prima parte basata sull’esecuzione di esercizi, seguita da studi, cioè partiture di movimenti definiti in modo molto preciso, eseguiti con musica, il cui scopo era permettere all’attore di interiorizzare i principi della biomeccanica. Gli esercizi provengono da tradizioni teatrali e non: circo, cabaret, pugilato, ginnastica, allenamento militare, commedia dell’arte, kabuki (una forma teatrale giapponese), teatro tradizionale cinese e altri. Gli obiettivi principali dell’allenamento sono quello di arrivare a un controllo preciso del corpo, sviluppare un senso dello spazio che permetta di stare nella scena in gruppo in maniera armoniosa, e infine potenziare i riflessi per una reazione istantanea e incosciente dell’attrice. Tutto il corpo partecipa in ognuno dei movimenti, è famosa l’affermazione di Mejerchol’d secondo cui «se la punta del naso lavora, tutto il corpo lavora». 

La biomeccanica è meccanica, si basa cioè su un lavoro fisico dell’organismo, ma è bio, e fa quindi riferimento a un organismo vivo, un corpo intero: corpo fisico, pensiero, emozioni… Per questo motivo Ruffini sostiene che il metodo Stanislavskij (che si basa sul lavoro emotivo dell’attrice e per questo motivo spesso viene contrapposto alla biomeccanica di Mejerchol’d) in realtà è una “biomeccanica dell’anima” che si basa sul corpo emotivo invece che su quello fisico. Vorrei concludere con le parole di Ruffini a riguardo: «Tutto è biomeccanica se è la ricerca della coincidenza degli opposti nel momento in cui, portato all’estremo, qualcosa si tramuta e rivela il suo contrario. Lì si rivela […] la vita. L’attore interessante ti fa vedere la vita, magari sta facendo Amleto o sta facendo un personaggio del tutto secondario, tragico, comico, ma se è interessante ti fa vedere qualcosa che è veramente l’unica cosa interessante da guardare: la vita in vita».

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