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IL FENOMENO DELLO SLOW BRAND

INTERVISTA A PATRIZIA MUSSO
A cura di Marta Bello
17 Ott 2024

QUANDO HA INIZIATO A OCCUPARSI DI BRAND?

In qualche modo la curiosità verso il mondo del brand mi ha accompagnata per tutta la vita. Fin da quando ero un’adolescente negli anni ’80, giovane consumatrice milanese travolta dalla nascita dei brand di moda; passando per quando, da studentessa di Filosofia in Università Cattolica, ho scelto di seguire uno dei primi laboratori di analisi della comunicazione pubblicitaria; fino alla seguente specializzazione in marketing, alla docenza in Università e alla pubblicazione del mio primo libro per FrancoAngeli “I nuovi territori della marca”.

COME DEFINIREBBE IL BRAND ACTIVISM?

Qualsiasi azienda, che sia profit o non profit, è un brand. Si presenta sul mercato con una mission, una vision e dei valori che la rendono distintiva. Non basta più solo ideare una bella filosofia, raccontando magari della messa al centro delle persone con vuoti slogan pubblicitari: essere attiva vuol dire prestare davvero attenzione e agire in modo coerente, prendendo anche una chiara posizione rispetto a una serie di problemi che affliggono la società contemporanea.
Ormai nessuna azienda può più permettersi di non essere “attiva”, se non vuole rischiare di perdere non solo clientɜ, ma anche dipendentɜ. Questɜ ultimɜ, infatti, secondo le indagini più recenti, vogliono anche dare un senso profondo al proprio lavoro, oltre a ricercare un allineamento valoriale tra i propri principi e quelli dell’azienda per cui lavorano. Soprattutto lɜ giovani arrivano addirittura a licenziarsi o a rifiutare un posto in un’azienda se questa non ha a cuore certi valori o risulta incoerente cadendo nel washing. E spesso sono dispostɜ a prendere queste decisioni anche senza avere già pronto un piano b. È qualcosa che le aziende fanno ancora fatica a capire.

COS’È IL WASHING?

Vuol dire dare vita a uno scollamento da parte delle aziende tra quello che è il telling, quello che dicono, e il doing, quello che fanno. Un’azienda, ad esempio, può dichiararsi particolarmente attenta al tema della sostenibilità ambientale, ma nei fatti magari continua a far usare bicchieri di plastica nei suoi uffici o non regolamenta l’uso della stampante. Questi sono semplici, ma immediati esempi di washing.

RICOLLEGANDOCI A QUANTO DETTO POCO FA, CHE RAPPORTO VEDE TRA L3 GIOVANI E LE AZIENDE?

Credo ci sia un grande bisogno di dialogo. Il rischio, altrimenti, è quello di restare nel “noi vs loro”. Essere attivɜ vuol dire anche prendere consapevolezza dei cambiamenti che sono in atto: ad esempio, uno dei classici benefit aziendali è l’auto, ma ci sono sempre meno giovanɜ che prendono la patente (trend interessante) e l’auto aziendale non interessa più; al suo posto preferiscono spesso una settimana di ferie aggiuntiva. Poi bisognerebbe entrare nell’ottica del reverse mentoring perché anche le figure junior possono insegnare qualcosa ai lavoratori e alle lavoratrici senior.
Le aziende hanno da sempre bisogno di stare al passo con i cambiamenti degli strumenti di comunicazione: c’è necessità di essere sempre aggiornatɜ su quale social sia in voga e per quale tipo di contenuto. Su questo lɜ giovanɜ possono dare un concreto contributo, portando anche una freschezza di visione che talvolta nelle aziende manca.

COS’È IL FENOMENO DELLO SLOW BRAND?

Ha toccato un tema che mi sta molto a cuore. È dal 2010 che studio questo fenomeno di progressivo rallentamento, essendo una milanese D.O.C. può immaginare quanto sia stato inizialmente difficile per me avvicinarmici – sorride.
Ho iniziato interessandomi alla realtà dell’Associazione non profit “L’Arte del Vivere con Lentezza”; questa attenzione al rallentare, a prestare più tempo alle cose che si stanno facendo, può davvero essere la chiave di svolta. È una forma di rallentamento che può concretizzarsi in vari modi.
Il mondo delle aziende è sempre stato fast, la domanda che mi sono posta è stata: dove si può essere slow, tenendo conto delle necessità aziendali? Nel mio primo libro, pubblicato nel 2013, ho raccolto una prima serie di casi, nazionali e internazionali, arrivando poi nel 2017 al nuovo testo: “Slow Brand, vincere imparando a correre più lentamente”.
Molti brand ci si stanno avvicinando, ad esempio, creando spot pubblicitari sempre più lunghi, talvolta anche a puntate come piccole serie tv o cortometraggi, con contenuti che fanno riflettere o che intrattengono, quindi che si ha piacere di guardare e non skippare. Oppure nel retail ponendo dei punti bar dentro i negozi fisici, permettendo così a chi acquista di trascorrere più tempo nello store, creando esperienze piacevoli che funzionano tramite il passaparola; ma anche investendo sulla formazione, sulla riflessione, sul dialogo in azienda, proprio per mettere al centro lə dipendente e le sue esigenze.
Questo diritto di essere slow vale sì per le aziende, ma anche per lɜ ragazzɜ che iniziano a lavorarvici da poco. È importante dare loro il tempo di ambientarsi, apprendere, capire cosa fare e come farlo. Credo sia proprio questo il motivo del successo del nostro evento annuale Slow Brand Festival.

COME INSEGNANTE, QUALI SONO LE COMPETENZE FONDAMENTALI CHE CERCA DI TRASMETTERE ALL3 SU3 STUDENT3?

Cerco di dare loro gli strumenti per prendere delle scelte: aiutarlɜ a mettere a fuoco in cosa consiste concretamente un lavoro, individuare le differenze reali tra un job title e l’altro, una delle difficoltà più grandi per lɜ ragazzɜ oggi è proprio quella di comprendere la realtà aziendale e le mansioni richieste.

HO LETTO CHE LAVORA COME CONSULENTE STRATEGICA PER LA COMUNICAZIONE DELLE AZIENDE…

Col tempo, il ruolo da consulente di direzione - di cui mi sono sempre occupata - si è trasformato in un ruolo volto alla formazione, talvolta anche con intere aree aziendali. Ogni tanto provo a sfruttare la possibilità di coopetition creando aule di formazione ibride, cioè composte da figure manageriali di aziende diverse, talvolta anche competitor tra loro su alcuni aspetti. Questa nuova modalità permette un grande confronto sulle problematiche comuni che molto spesso è davvero arricchente. Sta crescendo anche l’interesse verso forme di workshop intergenerazionali, da un lato per concretizzare il tema del reverse mentoring dentro una stessa azienda, dall’altro per facilitare quel dialogo tra giovani e aziende in cui credo molto.

È POSSIBILE ESSERE FELICI IN AZIENDA?

ASSOLUTAMENTE SÌ. STIAMO PROPRIO CONDUCENDO DEGLI STUDI SU QUESTO TEMA.
Essere felici in azienda vuol dire lavorare in un contesto positivo, di rispetto reciproco, trasparenza, tranquillità e apertura al dialogo. Stanno nascendo nuove certificazioni e job title, come, ad esempio, quello del manager della felicità che a livello internazionale conta già più di 1500 persone, mentre in Italia si attesta a quota 300. In confronto siamo un pochino indietro, ma stanno aumentando, e questo è decisamente un segnale positivo.

MI RACCONTEREBBE, PER FAVORE, QUALCHE ESEMPIO POSITIVO DI BRAND ACTIVISM?

Sicuramente il primo emblematico a cui ricorro sovente anche a lezione è il brand internazionale Patagonia, capace già anni fa (ancor prima quindi che nascesse questo trend) di sollecitare la nostra attenzione al tema dei consumi e sprechi legati alla sostenibilità con la campagna “Don’t buy this jacket”, avviata nel 2011 durante il Black Friday.
Sempre a livello internazionale, altro caso che mostro a lezione e cito nei miei testi, è Dove, che da tempo non solo ha abolito l’uso di Photoshop, ma ricorre a donne “normali” e non modelle inarrivabili per le sue campagne di adv, sicuramente di rilievo per accompagnare donne di tutte le età nel complesso mondo dell’autostima.
Sul piano italiano, dove si sta iniziando a lavorare su queste tematiche (non ancora con la stessa “potenza comunicativa” dei brand internazionali), citerei alcuni brand che ho avuto modo di conoscere a vari livelli e che traducono la messa al centro delle persone e l’intenzione di partecipare al bene comune con varie modalità (ne abbiamo parlato anche su Brandforum.it): Mulino Bianco, Merck Italia e Siemens Italia.

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