
I MANDARINI
“Bisognava profittarne per formare i lettori invece di riempirgli la testa: non dettargli delle opinioni, ma insegnargli a giudicare da sé. La cosa non era semplice: spesso i lettori esigevano delle risposte e non bisognava dargli un’impressione di ignoranza, di dubbio, di incoerenza. Ma questo era appunto l’impegno: meritare la loro fiducia invece di rubargliela.”
Simone de Beauvoir, I mandarini, 1954
Tanti anni fa sentii queste parole che, nella loro semplicità, mi colpirono moltissimo. “A non fare niente, non ci vuol niente: basta non far niente.” A pronunciarle era stato un rapper, era il 2000 e al posto di “niente” aveva usato un altro termine, più volgare, ma il significato era il medesimo. Ventiquattro anni dopo, mi trovano ancora completamente d’accordo.
Il brand activism è una strategia, certo. Se ben gestita ha ricadute positive - per non dire ottime - sull’organizzazione che la mette in campo? Ovviamente sì. Quindi è l’ennesima fregatura che le aziende ci vogliono rifilare? Io non credo, no.
L’attivismo dei brand è sempre più presente e rilevante nell’universo del marketing e della comunicazione aziendale e, per questo, abbiamo deciso di parlarne qui. Si tratta, infatti, di un impegno esplicito da parte delle organizzazioni nei confronti di temi sociali, politici e ambientali, con l’obiettivo di contribuire positivamente al cambiamento della società.
Perché? Perché oggi consumatori e consumatrici cercano marchi che non solo offrano prodotti o servizi di qualità, ma che condividano anche valori etici e che siano impegnati in questioni rilevanti. Soprattutto le Generazioni Y e Z sono inclini a preferire aziende che dimostrano un impegno autentico verso certe cause. Vogliamo vedere brand che prendono posizione su temi come l’inclusività, la parità tra i generi, la sostenibilità, i diritti umani, la giustizia sociale…
Un’azienda che si schiera apertamente a favore di una causa sociale, invia un messaggio chiaro sul suo sistema di valori e sulla sua visione del mondo. Sposta la massa critica. Contribuisce al dibattito culturale. Ha un impatto altissimo, anche solo per il numero di persone che raggiunge e la forza di diffusione che ha.
Quindi vale tutto? Pink washing, green washing, pubblicità strappalacrime…? No. Anzi, l’attivismo di un brand deve essere basato su una comprensione profonda del contesto sociale e culturale in cui si colloca, oltre che su una solida coerenza con i valori del marchio stesso. Deve corrispondere a reali e concrete azioni, dentro e fuori l’azienda. Altrimenti i proclami restano proclami, e giustamente dipendenti e clienti non ci cascano una seconda volta.
Nell’era dei social e della polarizzazione, i brand non possono più permettersi di restare neutrali: prendere posizione è diventato un imperativo per rimanere rilevanti.