
Edge, l’associazione che porta la diversità in ufficio (e oltre)
In Italia, parlare di diritti LGBTQIA+ ha significato spesso limitarsi al perimetro della vita privata, dei legami affettivi, della visibilità sociale. Ma cosa accade dalle 9 alle 18, sul luogo di lavoro? Che ne è dei diritti economici, dell’accesso alle opportunità professionali, della possibilità di essere sé stessi e sé stesse in azienda senza pagare un prezzo in termini di carriera, sicurezza o benessere? È da queste domande che nasce Edge, un’associazione di persone nel mondo del lavoro, a partire da manager, professioniste, professionisti e dirigenti LGBTQIA+ che ha deciso di mettere al centro il lavoro come luogo cruciale per l’affermazione della propria identità.
Edge non è un’associazione generalista: si muove su un terreno verticale e specifico, quello dei diritti sul lavoro e della diversity & inclusion (D&I) in ambito aziendale. «Ci occupiamo dell’intero ecosistema dei diritti delle persone LGBTQIA+ – spiega Lucia Urciuoli, presidente dell’associazione – ma partendo da un presupposto chiaro: le discriminazioni non si fermano fuori dall’ufficio, anzi. È proprio lì che si possono annidare bias insidiosi, spesso dati per scontati, normalizzati, invisibili».
Edge lavora su due direttrici principali: advocacy culturale e lobbying normativa. Da un lato, dunque, cerca di cambiare la cultura aziendale attraverso formazione, ricerca e campagne di comunicazione; dall’altro prova a trasformare questa consapevolezza in norme, policy e diritti concreti. Le due azioni sono strettamente intrecciate, perché – come spiega Urciuoli – «le norme possono cambiare anche in senso peggiorativo, come stiamo vedendo in vari Paesi, Italia compresa. Per questo dobbiamo lavorare sugli stakeholder: cittadine, cittadini, media, imprese, opinione pubblica. Convincere ogni giorno una persona in più che la diversità non è un ostacolo, ma una risorsa».
L’approccio di Edge è scientifico e orientato ai dati. In collaborazione con il think tank Tortuga, ha promosso un report (giunto alla seconda edizione) che analizza la correlazione tra diritti civili delle persone LGBTQIA+ e sviluppo economico sostenibile. La ricerca ha suddiviso l’Italia in sistemi produttivi locali, mappando il numero di unioni civili come indicatore di inclusività. Tre i risultati principali: nei territori dove c’è più inclusione, il reddito pro capite è più alto, l’occupabilità è maggiore e la capacità di attrarre talenti e investimenti è più forte. «Non si tratta solo di giustizia sociale – precisa Urciuoli – ma anche di convenienza economica. E non solo per chi rischia la discriminazione, ma per tutte le persone».
Non è un caso che proprio le aziende si siano fatte promotrici, insieme alle organizzazioni LGBTQIA+, di un cambiamento profondo. Ma non basta sventolare bandiere arcobaleno al Pride per essere inclusivi: «Se lo fai solo un giorno l’anno, è rainbow washing – dice Urciuoli – ma se quel giorno diventa un punto di partenza per portare avanti politiche serie di D&I, allora è il benvenuto». Edge offre supporto alle imprese facendo leva sull’empowerment e fondandosi sull’iniziativa dei suoi soci, che nelle e con le aziende lavorano per costruire percorsi formativi, creare spazi sicuri, affrontare i temi del linguaggio, delle microaggressioni, dell’omolesbobitransfobia latente. Chiede alle aziende di interrogarsi: come reagiamo a una battuta sessista in riunione? Che strumenti ha una persona LGBTQIA+ per denunciare una discriminazione? Che spazio c’è per chi si sente “diverso” e, magari, ha imparato a “svelarsi un po’ meno”?
Il nodo è politico, nel senso più pieno del termine. L’inclusione, sostiene Edge, è una postura chiara, una presa di posizione rispetto a un modello di società. Non stupisce, allora, che i governi più conservatori vedano nella D&I una minaccia. Donald Trump ha definito le politiche di diversity il nemico numero uno. «Perché ha capito una cosa – afferma Urciuoli –: le aziende che praticano la D&I stanno erodendo i privilegi che lui rappresenta. La sua ferocia è un segno del nostro avanzamento, non della nostra sconfitta». In Italia, oggi, si osserva una tendenza simile: un modello identitario rigido, binario, che riduce la cittadinanza a un’idea omologata di individuo e società. Edge, invece, sostiene un’altra visione: quella di un ecosistema inclusivo, dove le persone siano considerate nella loro interezza – cittadine, lavoratori, consumatrici, esseri umani – e dove la sostenibilità sia davvero circolare, ambientale e sociale.
«Un ecosistema – dice Urciuoli – è come un tavolo a tre gambe: una volta che l’hai messo in equilibrio, è la struttura più stabile che ci sia». Non è solo un’immagine: è un modello. Ed Edge lavora ogni giorno per metterlo in pratica.