
Danielle Madam: «Ero una ragazza arrabbiata, grazie allo sport sono diventata l’amica che tutti volevano»
Campionessa di getto del peso, Danielle Madam è arrivata dal Camerun in Italia a 7 anni. Viveva in comunità e a scuola passava più tempo fuori che dentro la classe. Poi ha incontrato l’atletica e da quel momento tutto è cambiato. Ha ritrovato sé stessa e la forza per cambiare il corso del destino
Quella di Danielle Madam è una storia che inizia in Camerun e arriva sui campi di atletica, dove una bambina arrabbiata perché la vita sembra averle sottratto ogni cosa diventa una campionessa di getto del peso, vincendo cinque campionati italiani giovanili. Ma, soprattutto, riesce finalmente a sentirsi vista e ritrova la fiducia in sé stessa che né la scuola né la casa famiglia dove vive riescono a trasmetterle. Nonostante i tanti successi sportivi, scopre però di non poter partecipare alle gare internazionali, perché non ha la cittadinanza italiana. Per fortuna, dopo tante battaglie, questa vicenda ha un lieto fine, ma ci vorranno 17 anni per arrivarci.
Danielle, quando comincia la sua storia?
La mia storia ha inizio in Camerun, il paese dove sono nata da mamma Esther e papà Samuel. Purtroppo papà non è stato a lungo con noi, è stato vittima di una faida che metteva in pericolo anche la mia vita e quella del mio gemello Ivan. Così nostra madre ha deciso di portarci in Italia, dove viveva suo fratello. Dopo averci accompagnato dallo zio a Miradolo Terme, vicino Pavia, la mamma è tornata in Camerun convinta che da lì avrebbe potuto aiutarci più facilmente grazie al suo lavoro.
Due bambinə senza genitori in un Paese sconosciuto. Com’è stato l’impatto?
In Italia è iniziata la seconda parte della mia vita. Avevo solo 7 anni e, presumibilmente, non parlavo la lingua, anche se nei miei ricordi ho sempre parlato italiano. Una delle cose che mi colpì di più fu la neve, che fino a quel momento avevo visto solo in televisione. Già da settembre, le maestre non vedevano l’ora di farcela vedere e anch’io attendevo con ansia questo momento. E quando finalmente arrivò, portarono me e mio fratello nel giardino della scuola per mostrarcela. Ricordo tutti i bambini della scuola affacciati alla finestra, curiosi di sapere quale sarebbe stata la nostra reazione. Peccato che l’impatto fu drammatico: giocando mi congelai le mani e i piedi. La neve non faceva decisamente per me.
Che è successo dopo?
Vivevamo con lo zio e sua moglie. Ma, quando lui si ammalò e venne a mancare, cambiò tutto. Sua moglie non poteva occuparsi di noi, ci trovammo senza una famiglia. A quel punto ci portarono in comunità, ma in due strutture diverse: io dalle suore e mio fratello dai preti. Fino a quel momento eravamo stati inseparabili. Ora, a nove anni, ci avevano diviso. Potevamo vederci solo una volta a settimana per mezz’ora e in alcuni casi dovevamo aspettare anche 15 giorni.
Com’era la vita in comunità?
Il primo impatto è stato duro. Ero molto arrabbiata con la vita, perché fino a quel momento mi aveva tolto tutto: prima avevo lasciato il Camerun e la mamma, poi avevo perso anche lo zio. La comunità era piena di regole. Anche a scuola c’erano un sacco di regole e io mi rifiutavo di seguirle. Non avevo moltə amicə, in classe tuttə percepivano il mio disagio. Non potevo avere le cose che avevano loro, anzi, non avevo quasi nulla. In comunità mi davano roba vecchia, di seconda mano. Non avevo neanche il diario dell’anno in corso, ne avevo uno di quello precedente.
Qual è stato il momento in cui tutto è cambiato?
A scuola le cose andavano male. Spesso mi mandavano fuori dalla classe e trascorrevo più tempo in corridoio che in aula. Finché un giorno il professore di educazione fisica passò di là e mi disse: «Perché invece di startene seduta a terra non vieni a provare il getto del peso?». Si avvicinavano le gare scolastiche provinciali e mancava una pesista. Accettai e lo seguii nel cortile della scuola. Dal primo lancio fu chiaro che avevo talento. Mi allenai solo un paio di volte, ma vinsi comunque la gara. Poi dal cortile della scuola passai ad allenarmi nel campo di atletica con il permesso delle suore. Presto capii che fare sport mi piaceva e che, se mi allenavo, potevo vincere le gare. Pensai che, applicando il metodo che usavo per l’atletica alla scuola, avrei evitato di essere bocciata. Così iniziai a impegnarmi e, in breve tempo, passai dalla media del quattro a quella dell’otto. Lo sport mi aveva cambiato la vita, non ero più la ragazza fuori dalla classe, ero diventata l’amica che tuttə volevano.
Cosa le era scattato dentro?
Finalmente qualcuno mi aveva vista. E poi nell’atletica avevo trovato la famiglia che non avevo. Lo sport mi dava un’identità, aveva fatto emergere la persona che non sapevo di essere. A 14 anni vinsi il mio primo titolo di campionessa regionale lombarda. La ragazza arrabbiata di un tempo era diventata una ragazza determinata e, soprattutto, felice. Nel 2013, a 16 anni, mi qualificai per i campionati del mondo. Indossare la maglia azzurra era il mio sogno. Ma quando uscirono le convocazioni, il mio nome non c’era. Pensai a una dimenticanza, dato che ero la prima in Italia. Invece non era un errore: scoprii che non potevo partecipare perché non ero italiana.
Una doccia fredda, anzi freddissima…
Di colpo realizzai di essere diversa dalle persone della mia età. Nei mesi successivi avrei trascorso ore di fila davanti agli uffici della questura per rinnovare il permesso di soggiorno e poter continuare a vivere in Italia. Ho proseguito con l’atletica, ma è stato veramente difficile. Tantə ragazzə nella mia stessa situazione hanno mollato per mancanza di prospettive. Poi il momento del diploma ha segnato un nuovo spartiacque. A 18 anni devi lasciare la comunità e, dopo aver vissuto per un anno in un appartamento messo a disposizione dalle suore, andai ad abitare con altre ragazze. Per mantenermi dovevo lavorare, ma mi iscrissi comunque all’università, perché ormai lo sport e lo studio erano legati, non poteva esistere l’uno senza l’altro.
Come riusciva a conciliare così tanti impegni?
Mi svegliavo presto per andare a fare le pulizie prima in un bar e poi in una casa. Seguivo una sola lezione all’università e poi andavo ad allenarmi. Dopo l’allenamento lavoravo come babysitter, andavo a prendere un bambino a scuola e rimanevo con lui fino all’ora di cena. Poi alla sera facevo qualche consegna in bicicletta come rider. A volte mi svegliavo di notte per studiare, ma ero fiera di me stessa, di non dover chiedere niente a nessuno.
Quando ha ottenuto la cittadinanza italiana?
Nel settembre 2020, dopo il caso del calciatore uruguaiano Luis Suárez e il suo esame farsa per la cittadinanza, scrissi un post su Facebook. Raccontai che vivevo in Italia da molti anni, che avevo fatto tutti gli studi qui, eppure non potevo diventare italiana. Per ottenere la cittadinanza occorrono 10 anni di residenza in Italia, ma gli 11 trascorsi in casa famiglia valevano solo come domicilio. Il post ebbe una risonanza incredibile e fui travolta dai messaggi di solidarietà. Seguì una bufera mediatica e l’anno successivo, dopo 17 anni dal mio arrivo in Italia, ottenni finalmente la cittadinanza.
Com’è cambiata la sua vita dopo?
È cambiata radicalmente, ho potuto cogliere tante occasioni che prima mi erano precluse. Nel 2021, in occasione degli Europei di calcio, sono stata chiamata per condurre il programma Notti europee su Rai 1. È stata un’esperienza incredibile, se si pensa che avevo solo 24 anni e, appena tre mesi prima, facevo le consegne in bicicletta.
E oggi?
Oggi vivo a Roma, dove mi sono iscritta alla facoltà di Economia aziendale, dopo essermi laureata in Scienze della comunicazione nel 2022. Ho scelto di tornare sui libri perché penso di meritare qualcosa di più di una laurea triennale e perché, quando mi sono iscritta la prima volta all’università, non avevo la stessa serenità di oggi per dedicarmi allo studio. Inoltre continuo a gareggiare e, come ai vecchi tempi, mi piace riempire tutta la giornata, fino all’ultimo minuto.
Cosa vorrebbe dire alle persone giovani che vogliono entrare nel mondo dello sport?
Di sfruttare ogni occasione e di non mollare mai. Lo sport può davvero cambiarti la vita. E non occorre essere campioni: diventare persone corrette, gentili e determinate è già una vittoria.