DANIELE CASSIOLI, promuovere l’inclusione sportiva osservando la disabilità

A cura di Valeria Pantani
19 Mar 2025

Visionario, ribelle, fiducioso: è così che si descrive Daniele Cassioli, sciatore nautico cieco dalla nascita. Nel 2019 ha intrapreso la strada della formazione, raccontando la sua storia per ispirare altre persone; ha fondato l’associazione Real Eyes Sport per introdurre bambinə con disabilità visiva al mondo dello sport.

Quando hai iniziato a praticare sci nautico? 

A 9 anni: io sono dell’86 quindi era il 1995 e non c’era la consapevolezza che c’è oggi nei confronti degli sport paralimpici. Un po’ da pioniere mi sono aggregato a un gruppo di persone con disabilità che praticava lo sci nautico. Tempo dopo, nel 2019, ho iniziato a fare formazione: mi sono reso conto che ci sono bambini e bambine che non praticano nemmeno ginnastica con i compagni e le compagne. Così nello stesso anno ho fondato l’associazione Real Eyes Sport; ho scritto anche due libri ed è in uscita il documentario Headwinds sulla mia storia.

Quali sono state le sfide più dure e le soddisfazioni più emozionanti?

Tra le sfide, da una parte, ci sono quelle tipiche dell’atleta: gestire le sconfitte, gli infortuni, le aspettative; dall’altra, farsi rispettare come atleta a prescindere dal fatto che vedessi o meno. Un’altra sfida è stata riuscire a fare cultura, ovvero far capire che le persone con disabilità possono praticare attività sportiva. Anche per le soddisfazioni c’è una parte più sportiva: i campionati e i record del mondo, la vittoria nelle gare ma anche la possibilità di trasformare quelle medaglie in qualcosa che abbia un valore sociale. Per me la vittoria più grande è spingere ragazzi e ragazze a fare attività sportiva.

Parlando di accessibilità per atletə ciecə e ipovedenti allo sci nautico e non solo, a che punto siamo?

Lo sci nautico è uno sport di nicchia, poco praticato anche tra persone non disabili: necessita di un grande periodo di educazione alla coordinazione e per questo fatica ad attrarre. Più in generale, credo che nel mondo dello sport manchi la parte dell’avviamento: se guardiamo alle Paralimpiadi ci sono molte persone con disabilità acquisita, mentre è più difficile vedere un o una partecipante cieco/a o in sedia a rotelle dalla nascita. Questa situazione è dovuta al fatto che la relazione con lo sport si costruisce quando si è bambinə e le ragazze e i ragazzi non disabili la costruiscono in maniera più automatica rispetto alle persone con disabilità. Inoltre, abbiamo un mondo dello sport poco pronto: le società sportive di base paralimpiche sono poche e non sono diffuse in maniera omogenea sul territorio; poi manca la percezione del fatto che una persona con disabilità può voler fare sport per divertirsi e non per andare alle Paralimpiadi, mentre questo pensiero nel mondo non disabile è normale.

Parliamo di educazione sportiva alla disabilità: credi che la sensibilizzazione su questo tema debba essere implementata? Ci sono abbastanza opportunità sportive per le giovani persone cieche e ipovedenti?

In Italia c’è una concezione dello sport abbastanza preoccupante, basti vedere come sono ridotte le palestre nelle scuole. La verità è che l’attività sportiva è molto sottostimata e quindi, di conseguenza, non si investe. Se analizziamo la situazione all’estero il legame con lo sport è imprescindibile: lì i ragazzi e le ragazze devono fare sport. Se poi parliamo di disabilità visiva nel mondo delle scuole (e non solo) manca la cultura: le e gli insegnanti tante volte non hanno idea di cosa sia svolgere una determinata attività fisica per una persona che non vede.

Tra le tue iniziative passate, c’è stata la telecronaca di una partita di basket ad alcunə bambinə ciechə.

L’obiettivo era far sì che chi non vedesse potesse andare al palazzetto con un amico o un’amica che gli raccontasse la partita. Pensa che un tempo mi è stato detto «Chi non vede non può andare nei palazzetti perché è troppo rumoroso»: mi è sembrato un pregiudizio gratuito. Noi invece ce li abbiamo portati e molti si sono gasati perché avevano la possibilità di tifare, di sentire nuovi rumori, di imparare a gestire situazioni non necessariamente ottimali, perché la vita è questo: non è sempre ciò che vorresti, ma quello che fai nel contesto in cui ti trovi. Mi piace poi pensare che, una volta tornati a scuola, i bambini e le bambine abbiano raccontato questa esperienza: «Lo sai che ieri sono andato a una partita di basket?». E poi è stato bello formare: tu puoi vedere una partita e allo stesso tempo raccontarla a un’altra persona.

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