
Corpi che contano di Nadeesha Uyangoda
Che ruolo riteniamo che ricopra lo sport nella società in cui viviamo? Magari può non essere centrale nelle nostre vite, possiamo non seguire nessuna squadra di calcio né gioire particolarmente per le vittorie tennistiche di Jannik Sinner, ma è probabile che anche inconsciamente attribuiamo alla pratica sportiva valori quali la collaborazione, l’impegno, il lavoro su di sé e forse perfino l’integrazione. Ma è proprio e, soprattutto, sempre così? Se lo chiede Nadeesha Uyangoda (scrittrice italo-singalese già autrice de L’unica persona nera nella stanza) nel saggio Corpi che contano (edito da 66thand2nd, 2024), in cui indaga lo stretto legame tra disciplina sportiva e pregiudizi di razza, genere e classe.
Innanzitutto, bisogna scardinare una convinzione ben radicata sia tra il pubblico sia tra i/le dirigenti ai più alti livelli, cioè che lo sport sia un’attività pura, in qualche modo superiore alla società di cui fa parte e che di conseguenza non abbia nulla a che vedere con movimenti politici e sociali. L’intento è messo nero su bianco nell’articolo 50 della carta redatta dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale), dove si dice chiaramente come «non sia consentito alcun tipo di manifestazione politica, religiosa o razziale in alcun sito, luogo o altra area di interesse olimpico», pena multe salate e minacce di squalifica. Ma dire che lo sport deve rimanere slegato dal contesto in cui ha luogo, come se avvenisse in un vuoto, è un’affermazione talmente ingenua da sembrare quasi detta in cattiva fede. Ogni sport affonda le radici nella cultura di diversi popoli. Basti pensare al cricket, l’attività da gentiluomini inglesi per eccellenza, oggi praticato principalmente negli Stati del Commonwealth, come India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka… retaggio del periodo coloniale prima, simbolo della libertà di alcuni ex territori colonizzati poi. O ancora all’uso che dello sport è stato fatto in Italia durante il periodo fascista, potente strumento di propaganda e di identità nazionale.
Inoltre è innegabile che lo sport, anche ai livelli amatoriali e locali, è praticato da chi ha tempo libero e denaro. Questo esclude un’enorme fetta della popolazione, che comprende soprattutto immigratə di prima ma anche di seconda generazione. Ecco quindi che, in Italia, dal 2016 è diventata legge lo ius soli sportivo, una norma che permette ai/alle minori stranierə regolarmente residentə nel Paese di tesserarsi nelle federazioni sportive con le stesse procedure previste per gli/le atletə italianə; il provvedimento, però, non si applica a tuttə quei/quelle ragazzə arrivatə in Italia dopo il compimento del decimo anno d’età e, non essendo equiparabile a una cittadinanza, non permette a sportivə meritevolə di poter comparire nelle squadre nazionali.
Lo sport, in Italia come all’estero, dovrebbe essere sintesi e specchio della società, sempre più multietnica e inclusiva, più aperta e progressista dei governi e delle istituzioni che la dirigono; esempi lampanti sono i/le tantə atletə con tratti somatici non caucasici salitə su un podio sventolando il Tricolore: Paola Egonu e Miriam Sylla per la pallavolo, Marcell Jacobs per l’atletica leggera, Rigivan Ganeshamoorthy per il getto del peso… Atletə portatə in palmo di mano finché fanno guadagnare medaglie, ma sempre a rischio di essere etichettatə come “non verə italianə”.
Come dice Uyangoda a conclusione del saggio, «ciò di cui ha davvero bisogno lo sport italiano è una riforma della legge sulla cittadinanza» e una maggiore rappresentatività della reale composizione del mondo in cui viviamo tra gli organi dirigenti, che ancora oggi mostrano una quasi totale assenza di soggetti razzializzatə.