Competizione e Persona

Rubrica LANTERNA
A cura di Riccardo Argento
19 Mar 2025

Davvero il fine ultimo della competizione è la vittoria? Può sembrare una domanda scontata, con risposta pressoché affermativa.

Ma prendiamo due casi avvenuti nel contesto sportivo del 2024 che sono diversi, che mi hanno colpito e che trovo possano insegnarci qualcosa che va oltre lo sport. Si tratta del caso di Benedetta Pilato e il suo quarto posto nei cento metri a rana alle Olimpiadi parigine e la modalità di marketing fatta durante le Paralimpiadi.

Un breve riassunto degli avvenimenti. Durante i centro metri a rana Pilato, 19 anni e alla seconda olimpiade, arriva quarta per un soffio, sfiora il podio e non porta a casa nessuna medaglia. In un’intervista alla fine della gara piange di felicità. Dice di essere contenta per quello che è riuscita a mettere in campo, specialmente dopo la squalifica delle Olimpiadi precedenti, parla con orgoglio dei progressi fatti: un anno prima non avrebbe neanche potuto affrontarla quella gara. Una commentatrice in studio – e non una commentatrice qualsiasi, ma un’ex atleta olimpionica – la critica piuttosto pesantemente, dicendo di non aver capito il discorso, chiedendo se “ci è o ci fa”. Le due poi si chiariranno in un secondo momento.

Per quanto riguarda invece il marketing paralimpico, la scelta che è stata adottata anche e soprattutto dai canali ufficiali è stata quella di comunicare gli eventi in maniera ironica, divertente, mostrando momenti quasi dissacranti. Ovviamente le risposte sono state estremamente varie, tra chi ha supportato questo modo di comunicare e chi lo ha trovato completamente irrispettoso.

Cos’hanno in comune allora questi due eventi? Trovo siano una cartina tornasole di un nuovo modo di vedere le cose che sta finalmente attecchendo. Alle Olimpiadi o Paralimpiadi, o a una gara sportiva agonistica, si va per vincere. Oppure no? Cosa mettono in campo quegli atleti e quelle atlete, se non la loro esperienza, l’esercizio che hanno svolto, l’impegno che hanno dedicato per essere lì a competere? Dietro ciascunə di loro vi è una storia, un percorso che ha avuto momenti alti e bassi, che nella gara stessa viene esaltato. Ecco, ridurre allora tutto questo a un semplice numero, una semplice posizione, non ha affatto senso. Ed è per questo che dobbiamo allora anche dissacrare la disabilità, andare oltre e scovare la persona che sta competendo.

Ma facciamo attenzione, non si tratta di dare a tuttə medaglie di partecipazione. Si tratta di valorizzare la persona, la sua storia, l’impegno e attribuire a ciò un valore, al netto della performance finale o della visione che possiamo avere.

Non fare ciò è una miopia che non possiamo più permetterci. C’è una battuta tra ragazze e ragazzi durante le superiori, che ho notato essere piuttosto ricorrente. I genitori quando si prende un brutto voto e la classe va male dicono di non interessarsi delle altre persone, ma quando si prende un bel voto subito chiedono chi abbia preso di più.

La competizione, insieme al “portare a casa risultati” manco si fosse manager aziendali, è una piaga che occlude la vista a ciò che conta. Non sono queste cose a rendere una persona ricca, ma tutto il suo mondo e il tempo trascorso per essere lì. Esaltiamo, quindi, la persona per ciò che è, per le sue esperienze, il suo impegno.

Perché magari, quell’esame, quella gara, persino alzarsi dal letto, un anno prima non saremmo statə capacə di farlo, anche se arriviamo quartə. Insomma, sport magister vitae.

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