
BISOGNA FARLO PER FORZA?
Può un’azienda vestire i panni dell’attivista e battersi per contrastare il riscaldamento globale o per una società più inclusiva? La risposta, scontata, è certamente sì. La risposta sarebbe però meno scontata se la domanda fosse: “un’azienda deve farlo?”. Per capire cosa significhi e dove stia andando oggi l’attivismo di brand è necessario partire proprio da qui.
Per affrontarlo in modo consapevole è utile chiarire una questione spesso trascurata. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una progressiva perdita di fiducia nei confronti dei tradizionali punti di riferimento valoriali e culturali. Un cambiamento che ha avuto e ha tuttora effetti su tanti aspetti della nostra vita, comprese le modalità con cui pensiamo e consumiamo. Oggi, governi, partiti, media e istituzioni religiose non riescono più a esercitare la stessa influenza di un tempo. Sempre più spesso si dimostrano lenti e poco reattivi e, in un mondo che corre così veloce, hanno lasciato spazio a nuovi attori. Tra questi ci sono proprio i brand, che spesso hanno saputo mostrarsi più agili nel rispondere ai cambiamenti che viviamo quotidianamente.
A malincuore, è importante notare come, in molti casi, le aziende abbiano scelto di schierarsi a favore di una causa per puro opportunismo o per rispondere a forti pressioni esterne, spesso provenienti dal basso. Basti pensare a tutto ciò che accadde durante il periodo del movimento chiamato Black Lives Matter, nel 2020. Ma se non c’è coerenza tra dichiarazioni pubbliche e cultura aziendale, e se non si agisce concretamente a sostegno della causa per cui ci si schiera, è facile sfociare nel washing.
Non credo che i brand siano obbligati a prendere posizione su ogni causa. A volte, sentirsi in obbligo porta ad azioni superficiali e poco consapevoli. Ecco perché la scelta di associarsi a un tema dovrebbe prendere forma negli uffici del management e tenere conto delle sensibilità di chi lavora in azienda, piuttosto che nascere da un brainstorming all’interno del reparto marketing.
L’attivismo di brand si sta evolvendo così come evolve il pubblico. E se prima il focus era incentrato sul purpose, la ragion d’essere di un’azienda, oggi ai brand si richiedono azioni concrete. La decisione di sostenere una causa dovrebbe tenere conto di tre requisiti fondamentali: coerenza, trasparenza e azione.
Coerenza perché, per essere percepito come credibile e autentico, un brand deve poter dimostrare che tutte le sue attività e tutte le sue comunicazioni riflettano i principi dichiarati. Se affermo di lottare per abbattere il gender gap devo farlo in primo luogo all’interno della mia azienda. Se dichiaro di combattere il riscaldamento globale, la sostenibilità deve far parte di tutte le fasi della catena di produzione.
Trasparenza, poi, significa poter valutare e misurare scientificamente l’impatto delle proprie azioni. In questo senso, i report di sostenibilità sono strumenti perfetti per condividere all’esterno una fotografia onesta dei successi e anche degli insuccessi, immancabili in un contesto così complesso.
Il terzo requisito, il più importante, è l’azione concreta. Dichiarare il proprio sostegno non basta, perché solo l’azione può generare un vero impatto. Ma per agire responsabilmente è necessario essere consapevoli di tutti gli aspetti della causa da supportare e del contesto in cui ci si muove. Il modo migliore per farlo è affidarsi a enti non profit come associazioni, ONG e ODV che hanno tutti gli strumenti per agire concretamente.
È solo dopo questi tre passaggi che arriva la narrazione. Il racconto delle iniziative passa dall’azione, mai viceversa. Il mezzo, le parole, le immagini, i suoni, i volti vanno scelti con estrema cura. Un brand, soprattutto se grande e noto, ha la capacità di entrare nelle case di milioni di persone e, se lo fa affrontando tematiche sociali, ambientali o politiche, si sta assumendo una grande responsabilità. Il rispetto per la causa che si sceglie di sostenere e per le persone alle quali si parla è imprescindibile.
Con Bonfire, l’agenzia narrativa di cui sono Co-Founder, abbiamo scelto di dedicare una parte del nostro lavoro al racconto responsabile dell’impatto sociale. Lo facciamo scegliendo temi a noi cari coinvolgendo sempre realtà del Terzo Settore con cui collaborare. Lo facciamo attraverso due format video originali, “Nastri” e “Quattro righe”, che giriamo in teatro. L’obiettivo è sensibilizzare, diffondere consapevolezza, rompere tabù, ribaltare stigmi e pregiudizi e soprattutto permettere alle persone di agire a supporto di una causa attraverso le realtà con cui collaboriamo. Tra i temi che abbiamo trattato fino a oggi ci sono i disturbi del comportamento alimentare con Animenta, l’immigrazione di prima e seconda generazione con la redazione di The BlackPost e le discriminazioni in ambito oncologico con C’è Tempo ODV.
Al di là di tutto, il più grande augurio che dovremmo farci è che politica e istituzioni riacquisiscano la credibilità perduta e tornino a guidare Paesi e persone nell’affrontare le sfide dei nostri tempi. I brand non possono e non devono sostituirli. Sono però chiamati a dare il proprio contributo. Una chiamata alla quale dovrebbero rispondere in un modo solo: agendo concretamente e, soprattutto, responsabilmente.