
ATTIVISMO PER PROFITTO: È ANCORA ATTIVISMO?
L’attivismo conviene alle aziende. Gli studi di management hanno ampiamente dimostrato che impegnarsi socialmente, schierandosi a favore di una o dell’altra coalizione, genera un ritorno economico positivo. Questo ritorno può manifestarsi come un incremento delle vendite, un miglioramento della reputazione o il consolidamento della legittimità da parte del mercato e della società in generale. Ognuna di queste valute ha il potenziale di generare maggiori profitti.
Pertanto, quando le aziende assumono un posizionamento politico non possiamo sapere se siano motivate da ragioni genuinamente morali o da motivazioni strumentali. Questa incertezza ha alimentato un sentimento antagonista nei confronti dei marchi attivisti, accusati di strumentalizzare le lotte civili, dai movimenti per la giustizia sociale ai diritti delle minoranze, per i propri scopi economici. Ad esempio, una parte della comunità LGBT+ non tollera più l’ingerenza dei grandi marchi nei pride, nonostante supportino e sponsorizzino la causa.
Ma cosa muove questa riluttanza? Non è forse un bene per le minoranze discriminate se le aziende si schierano dalla loro parte e contribuiscono a finanziare le loro cause, indipendentemente dai motivi? Ci sono due argomenti contro l’attivismo strategico, uno di ordine morale e l’altro di ordine ontologico.
In primo luogo, l’attivismo per un tornaconto personale sembra tradire le ragioni ultime per cui dovremmo impegnarci politicamente: il miglioramento della società secondo una certa idea di bene. Il buon attivismo richiede motivazioni genuinamente morali, cioè intrinsecamente legate alla nozione di ‘bene’ o ‘giustizia’. Qualora fosse mosso da motivazioni strumentali, andrebbe respinto. Strumentalizzare le lotte civili significherebbe mercificare i diritti, rendendoli valuta di scambio. Qui si scontrano due posizioni in filosofia morale.
Da una parte, il deontologismo kantiano afferma che un’azione è moralmente buona se e solo se è motivata da ragioni morali. Ad esempio, quando doniamo il sangue, dovremmo essere mossi da un autentico desiderio di aiutare persone bisognose, non da un eventuale compenso. Ciò non significa che dietro un’azione morale non possano esserci anche motivazioni strumentali, purché quelle morali siano prioritarie in caso di conflitto. Viceversa, il consequenzialismo sostiene che un’azione è moralmente buona qualora produca buone conseguenze, indipendentemente dai motivi che la generano. Donare il sangue sarebbe quindi una buona azione perché aumenta la probabilità di salvare vite umane, anche se realizzata unicamente dietro ricompensa. Allo stesso modo, nella misura in cui l’attivismo dei marchi contribuisce a migliorare le condizioni delle minoranze, incrementando il loro bene, rientrerebbe tra le azioni moralmente buone.
L’accusa di strumentalizzazione si fonda pertanto su un argomento deontologico: l’attivismo delle aziende va giudicato negativamente perché dietro ci sarebbe una ragione di ordine non morale.
La seconda accusa, più dura, contro l’attivismo strumentale è che esso cessa di essere attivismo, e diventa qualcos’altro. L’attivismo richiede infatti, come elemento costitutivo della sua definizione, l’intenzione di fare il bene per il bene. Come ha sostenuto Sandel, ci sono beni che, se mercificati, perdono la loro identità, smettendo di essere quella-cosa-lì. Non si può, ad esempio, comprare un Oscar o una vittoria alle Olimpiadi, né si può comprare un’amicizia o un amore. Chi comprasse un Oscar non possederebbe davvero un Oscar, ma solo una statuetta che somiglia a un Oscar, perché l’Oscar richiede quella specifica qualità legata al riconoscimento sulla base del merito. L’attivismo politico avrebbe questa natura non mercificabile: è attivismo se e solo se mosso da un desiderio autentico di giustizia. Se non lo fosse, diventerebbe qualcosa di intrinsecamente diverso, addirittura ingannevole, come provano i neologismi ‘greenwashing’, ‘pinkwashing’ o ‘bluewashing’.
Questi due argomenti supportano il sentimento antagonista verso il brand activism. Ciò non significa che non vi siano aziende davvero impegnate per cause sociali, ma l’incapacità di determinare il movente ad agire rende problematica ogni conclusione circa la loro bontà morale.