Visioni del futuro
“Time is on my side, yes it is”, cantavano i Rolling Stones. Il tempo che scorre, il tempo che si ferma, il tempo che sfida l’uomo nella sua finitezza e lo interroga: e l’uomo che cerca di rincorrerlo, di governarlo, di interpretarlo in una visione collettiva. È stata spesso l’arte, a proporla, questa visione: configurando di volta in volta tramite le immagini un “futuro” diverso, che fosse il precipitato dei desideri, delle paure, delle ambizioni della società del presente. Non è un caso che il Novecento si apra con un’avanguardia storica, il Futurismo, che di questa riflessione costituì in qualche modo il preludio, con un’ampiezza di linguaggio e di pubblico sconosciuta ai movimenti europei contemporanei.
L’adozione di uno stile rumoroso e popolare, la contaminazione con formule fino ad allora riservate alla pubblicità o alla propaganda politica, la trasversalità mediatica, decretarono il successo di un movimento che intendeva risvegliare la cultura “dall’estasi e dal sonno”, saldare finalmente l’arte con la vita, modellarla attorno a un’idea di futuro che avrebbe seppellito le consuetudini dell’accademia e del mondo borghese. Conquistandosi, con prepotenza, nuovi spazi: così come accade ne La città che sale di Boccioni, dove un cantiere edile in espansione irrompe nella campagna e nel cielo con edifici sempre più vertiginosi.
Una proiezione del presente al futuro che a distanza di qualche decennio accelerò sempre di più, tanto che queste due dimensioni sembrarono a un certo punto schiacciate e addirittura simultanee: il concetto fu espresso a pieno da quella mostra epocale che nel 1956 fu presentata alla Whitechapel Gallery di Londra e che si intitolava, appunto, “This is tomorrow”.
Ma quale era “questo domani” che la nascente Pop Art rivelava? Era proprio, in una temporalità ormai contratta, un’esperienza totale del presente, con tutti gli attributi che il boom economico materializzava nelle vite delle persone, dagli elettrodomestici alla televisione, dalla moda ai consumi per le vacanze e il tempo libero: anche l’arte, in questo contesto, doveva farsi “popular, transient, expendable, lowcost, mass-produced, young, witty, sexy, gimmicky, glamorous, and big business”, come disse Richard Hamilton nel 1957.
Quasi trascurabile sembrò che quel mito di benessere, di febbricitante corsa, anche verso lo spazio, non fosse poi così accessibile a tutti e adombrasse oltretutto, sul piano internazionale, lo spettro di una guerra nucleare.
Quando il velo cade, negli anni Settanta, all’arte si impose un futuro “politico”: in esatta opposizione alla Pop Art, legata a una visione dell’opera come prodotto seriale e di consumo, l’Arte Povera guardò allora alla produzione artistica non solo come fatto culturale, ma anche come ritorno alla natura e all’effimero.
Non si trattava più di costruire con le immagini una dimensione pubblicitaria, quanto piuttosto di far entrare nell’arte la realtà con i suoi elementi: animali, vegetali, minerali.
Questi apporti riportavano l’arte alla sua “povera” essenzialità, ma dischiudevano d’altra parte all’artista un mondo di potenzialità fisiche, chimiche, biologiche finora inesplorate.