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VESTO QUINDI SONO

Rubrica Moda
A cura di Clara Carlini e Annalia Luciano
22 Mar 2023

Si attribuisce al grande regista americano Robert Altman la seguente affermazione: “Nudi, non abbiamo più nulla da nascondere, non possiamo più nasconderci. Così ci scegliamo dei vestiti, ci travestiamo, per darci un ruolo sociale”.

Esiste da sempre una stretta correlazione tra moda e costruzione di identità personale e /o sociale. Con la prima intendiamo un insieme di elementi che rendono l’individuo unico, l’idea più profonda e intima che abbiamo di noi stessi. Non è statica ma si evolve con la crescita e i cambiamenti sociali e culturali. L’identità sociale è caratterizzata invece dal ruolo che adottiamo all’interno di un determinato contesto ambientale e dai legami creati con il gruppo. Abbigliamento come identità personale e sociale.

Quello che indossiamo ci identifica come appartenenti ad una certa classe sociale, ad uno stile di vita, ad una professione. Identifica il nostro modo di essere. Gli abiti, quindi, hanno un enorme potere simbolico perché espressione di appartenenza ad un gruppo.

La società ha un enorme influenza sull’individuo ma non è sempre evidente o tangibile, spesso pensiamo di fare scelte in autonomia e tuttavia siamo influenzati dagli altri, il giudizio social ci condiziona; vi è una lotta interiore tra quelli che sono i nostri desideri e la volontà di affermazione della nostra autostima e lo specchio esterno costituito dal giudizio degli altri. La moda viene percepita come mezzo per raggiungere obiettivi che stanno alla base del comportamento sociale, acquisire sicurezza di sé, valorizzazione di noi stessi e al contempo ricerca dell’appartenenza, il desiderio di affiliazione. Le dimensioni di cui si compone la moda sono due, uniformarsi e differenziarsi. Georg Simmel (1858-1918), filosofo e sociologo tedesco, uno dei più noti interpreti della modernità sosteneva che la moda appaga il bisogno di appoggio sociale ma contemporaneamente anche il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento.

Resta da capire se accettiamo la moda di un gruppo perché ci piace davvero, per volontà di condivisione, oppure se l’accettazione deriva dalla pressione (reale o percepita) che si subisce, se prevale perciò la paura di non essere accettati.

L’ansia di essere valutati negativamente dagli altri è un elemento da non sottovalutare. Aiuta a comprendere fenomeni come bulimia, anoressia o dismorfismo corporeo in quanto problemi non solo associati ad un disturbo dell’immagine corporea ma anche ad una elevata ansia sociale e disabilità relazionale. In questo caso l’abito è usato per gestire l’ansia che deriva dalle relazioni con gi altri (Gaia Vincenzi, “L’abito non mente”, Foschi Editore 2018).

L’accettazione del proprio corpo è alla base della definizione della nostra identità. Gli abiti sono il mezzo attraverso il quale rendere visibile a tutti chi siamo veramente. Dobbiamo riappropriarci del nostro corpo, liberarci dalle pressioni sociali spesso vissute come un diktat dal quale è impossibile sottrarsi, è necessario trovare il coraggio di piacersi. Piacersi significa seguire le proprie inclinazioni, vestirsi senza le limitazioni imposte da stereotipi di genere, indossare ciò che è più affine alla propria identità e al proprio stile di vita. Senza arrivare ad affermare una vera e propria assenza di genere, il focus dovrebbe essere spostato sull’individuo e sul fatto che la società nel suo insieme dovrebbe evitare di utilizzare il genere come principio di differenziazione e/o discriminazione.

Se facciamo un passo indietro dobbiamo considerare che il concetto di “unisex” è esistito almeno a partire dagli anni Sessanta e poi per tutti i Settanta, termine creato per esprimere la liberazione dal maschile e dal femminile tipico della controcultura di quel decennio; la sua naturale evoluzione è la moda senza genere cosiddetta “gender neutral”, fatta di quei capi potenzialmente senza categoria o etichetta, adatti a chiunque.

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