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UNIAMO: FONDAZIONE ITALIANA DELLE MALATTIE RARE E L'IMPEGNO PER LA SALUTE MENTALE

Il racconto della Presidente Annalisa Scopinaro
A cura di Valentina Dolciotti e Marta Bello
02 Apr 2024

Cos’è Uniamo e che obiettivi si dà per il futuro?

Uniamo è la federazione italiana delle malattie rare e ne rappresenta la comunità specifica. Le malattie rare sono circa ottomila e si stimano essere ben due milioni le persone che ne sono affette in Italia, tenendo conto che un quinto sono bambin* e l’80% delle patologie ha un’origine genetica.

È stata fondata nel 1999 da un gruppo di venti associazioni, si sono succeduti divers* presidenti anche se tendenzialmente la conduzione è stata prevalentemente femminile. Io sono la Presidente dal 2019, sono al secondo mandato e adesso le associazioni che ci sostengono sono circa duecento.

Quest’anno per noi è speciale perché compiamo venticinque anni e ne sono passati dieci dalla prima pubblicazione del nostro rapporto MonitoRare che va a indagare sulla situazione italiana attraverso dati statici. Si tratta di un report invidiato da tutta Europa perché ha un’azione di advocacy fortissima. Abbiamo iniziato con la rendicontazione del primo Piano Nazionale Malattie Rare 2013-2016. Non essendoci altri report presenti, la nostra raccolta dati ha segnato un passaggio molto significativo. Infatti, in dieci anni, sono cambiate molte cose grazie al costante monitoraggio: mettere sotto osservazione induce a produrre risultati anche in carenza di risorse economiche. Ad oggi il Rapporto è arrivato a riempire oltre 450 pagine di dati e statistiche, ma anche approfondimenti su tematiche specifiche; sulla base di questi facciamo richieste indirizzate alla politica e alle istituzioni.

Portiamo avanti tantissime iniziative: sensibilizzazione, tavoli e gruppi di lavoro, comunicazione, aiutiamo i-le singoli-e pazienti e le associazioni.

Da un lato abbiamo un’identità giuridica molto forte, dall’altro intraprendiamo tante azioni di supporto verso chi ne ha bisogno.

Per quest’anno abbiamo molti progetti: seguire il raggiungimento degli obiettivi del nuovo Piano Nazionale Malattie Rare, approvato lo scorso anno, facendo in modo che ciò che è scritto in quel piano venga concretizzato; lavorare ai decreti attuativi della legge sulla disabilità e investire maggiori risorse sulla salute mentale. Le persone affette da malattie genetiche rare sono già in una situazione di fragilità che le espone a maggiori problemi di mental health, così come tutta la famiglia e gli affetti della persona.

Abbiamo promosso alcune indagini e survey specifiche, soprattutto dopo il Covid, che hanno messo in luce alcuni aspetti che fino a quel momento erano stati sottovalutati ed è chiara la necessità di una maggiore sensibilizzazione sul tema. Infatti, il nostro sistema immunitario s’indebolisce in caso di problemi di salute mentale, accentuando i sintomi della malattia rara, creando situazioni di comorbidità (sottolineiamo che non sono ancora presenti evidenze scientifiche a riguardo).

Il tema della salute mentale avrà un’attenzione specifica per voi nel 2024?

Eurordis ha lanciato pochi mesi fa una position paper/ piano di azioni per la Mental Health a livello europeo e ha costituito un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei-delle pazienti. Dall’Italia arriva una psicologa che svolgerà un ruolo nel gruppo di Eurordis in accordo con la Federazione e insieme indicheranno le azioni da realizzare nel nostro Paese.

Proprio perché diamo importanza all’aspetto della salute mentale, stiamo sostenendo una serie di progetti relativi al supporto psicologico delle famiglie e delle persone affette da una malattia genetica rara attraverso finanziamenti dati alla nostra associazione; abbiamo cominciato due anni fa e vogliamo proseguire anche quest’anno. Abbiamo una società scientifica di psicologia che ci segue con programmi specifici, oltre ad una psicologa che segue i nostri casi.

Come d’uso alla Federazione, interveniamo sia con progetti pratici e di immediato beneficio per i-le pazienti, per poi cercare di modificare il “sistema”, le leggi, le procedure. Già da diverso tempo abbiamo promosso un progetto di lavoro integrato: l’inserimento all’interno del team ospedaliero anche di una psicologa, perché una persona già affetta da una patologia rara ha bisogno di essere seguita sia al momento della diagnosi sia nei vari passaggi della vita.

Ci rapportiamo con le società scientifiche per indurre cambi di mentalità, a piccoli passi. Poi abbiamo un altro grande obiettivo a cui puntiamo timidamente, almeno per adesso, che consiste nell’entrare nei tavoli di lavoro in cui si parla di salute mentale per strutturarne una tutela sempre maggiore anche a livello legislativo. Abbiamo molti contatti con la società di medicina narrativa che sostiene molto l’ascolto del-della paziente in una modalità empatica e dialogativa, che supporta le persone anche nel farle sentire comprese e le aiuta adattenuare lo stress emotivo che può portare poi a problemi di salute mentale. La sua specificità consiste nel considerare la persona nel suo intero, in modo olistico.

Qual è il tuo percepito rispetto al taboo sulle problematiche di salute mentale? E dove dobbiamo lavorare affinché la situazione possa migliorare?

Un primo approccio che potrebbe portare dei benefici, anche a livello legislativo, credo sia il riconoscimento delle varie professioni per capire chi sia più adatt* a un certo tipo di problematica perché c’è una gran confusione sulle figure specializzate che si occupano della salute mentale: psicolog*, neurolog*, psicoterapeuta…

Gli psichiatri e le psichiatre, per esempio, non si occupano di disabilità cognitiva, bensì della parte organica del cervello; quindi, la disabilità mentale - come il ritardo - non è il loro ambito.

Chi va dall* psicolog* subisce ancora una grande stigmatizzazione, è un taboo incredibile; tanto che la Legge Basaglia è passata alla storia come la legge per cui le persone “matte” sono passate dal manicomio al territorio. Fino a 30 anni fa, le persone definite “matte” che avevano compiuto un reato, venivano segregate all’interno di ospedali psichiatrici giudiziari perché alla fine della pena non c’era una struttura ponte per consentirgli una vita normale.

Questo lo so perché c’ero anche io quando abbiamo fondato la prima cooperativa sociale che si è occupata di queste persone negli anni ‘90.

C’è anche un altro aspetto particolare: se una persona con una malattia genetica rara non riconosciuta gira per ospedali in cerca di risposte, gli specialisti che sono consultati pensano spesso che sia una persona con una malattia mentale, magari ipocondriaca. Lo stigma c’è anche dalla parte del personale clinico. Ogni specialista si focalizza sul proprio campo, sulla propria specializzazione, e non riesce a guardare in maniera olistica la persona, che è il punto della medicina narrativa nominata prima: vedere la persona oltre la malattia.

Rispetto alla salute mentale, quale connessione ci potrebbe essere con la figura dei/delle caregiver?

Io conosco mamme che scoppiano. Il momento della diagnosi è un tema tragico, della frantumazione di un mondo, soprattutto quando si parla di bambin*.

In base a come viene data la diagnosi ci possono essere varie reazioni: rabbia, rifiuto, disperazione. Questi sentimenti, se non gestiti, possono provocare degli effetti a catena sul-la figlio-a o sulla persona partner. Da una parte si ha la negazione totale per cui – soprattutto sulle disabilità cognitive – non vengono portat* a fare terapia, dall’altra rischia di rovinare intere famiglie: le separazioni dove ci sono figli-figlie disabili sono molto più frequenti. A soffrirne di più è il figlio/la figlia disabile, obbligat* spesso a non vivere la sua vita ed essere tenut* sotto una campana di vetro, perché in queste situazioni diventa un collante fondamentale.

L’Italia, per quanto sia avanti rispetto ad altri paesi, non offre molto supporto ai genitori e ancora meno a chi ha un figlio o una figlia disabile; quindi, da zero i genitori devono inventarsi un’altra vita senza supporto, molto spesso con attività di assistenza 24h, con la conseguenza inevitabile del burnout.

Dici spesso mamme e donne, lo fai perché sono le caregiver principali sia dei figli e delle figlie che delle persone con malattie rare?

Sì, in generale, ma anche come caregiver di figli e figlie disabili. Il caregiving è un fenomeno diffuso, abbiamo svolto alcune indagini sulle persone che si prendono cura di chi è affett* da una malattia rara e abbiamo scoperto che il 95% sono donne e molte lasciano il lavoro o riducono la propria attività lavorativa. La salute mentale è tanto importante, anche perché in alcune generazioni le persone si trovano tra genitori anziani che hanno bisogno di assistenza e figli-e disabili, questo le porta a sparire come individui.

Come la desideri una legge su questo?

Vorrei che lo stato desse tutti i supporti che servono, in modo che ogni persona possa decidere se dedicarsi al caregiving e/o poter lavorare sapendo di lasciare le figlie e i figli in buone mani, che sia in una struttura o a casa. Banalmente, se una caregiver deve operarsi o anche farsi una visita di controllo, frequentemente non ha nessuno a cui appoggiarsi, rimandando o annullando la prevenzione sulla propria salute.

È dimostrato che fare il/la caregiver abbassa l’aspettativa di vita di ben cinque anni.

Detto questo, se non ci sono i supporti adeguati, andrebbe almeno corrisposto un riconoscimento perché ci sono persone che hanno lasciato tutto per dedicarsi al caregiving e quando la persona assistita muore, cosa succede? Loro hanno un bagaglio di esperienze pratiche molto valide, ma spesso non sono spendibili nel mondo del lavoro perché non sono competenze attestate in modo ufficiale. Un esempio potrebbe essere un sistema in grado di certificare le loro competenze acquisite così da poter rilevare risorse preziose. Un altro riconoscimento può essere un contributo figurativo, oppure la pensione anticipata. Altrimenti delle facilitazioni anche a carico del datore o della datrice di lavoro per consentire, ad esempio, la possibilità di lavorare in smart-working. Credo ci siano molte modalità e opportunità, dobbiamo capire come questo lavoro da caregiver possa essere compensato.

Ovviamente questa legge sarebbe rivolta a tutte le persone caregiver, indipendentemente dal genere.

Dei segnali a proposito di uomini che si stanno attrezzando è che i nostri ultimi questionari online per la raccolta dati erano rivolti alle donne, ma hanno risposto anche uomini.

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