Una tetralogia teatrale: Le sang des promesses
Adesso, bisogna ricostruire la storia. (…) Dolcemente, consolare ogni pezzetto. Dolcemente, curare ogni ricordo.
- Nawal, Incendies
Entro in sala, al buio, cerco il mio posto, faccio alzare sei persone per raggiungerlo, mi siedo, sistemo la giacca, osservo il palco, la scenografia, le persone, mi faccio domande. Ascolto la gente che entra, cerca il suo posto, fa alzare gli altri, si siede, si sistema, osserva, chiacchiera. Aspetto che succeda qualcosa. Quella tensione è una promessa: quando si riaccenderanno le luci, saremo tutte in un punto diverso. Quando Cielos si è chiusa con un grido, ho deciso che non avevo mai visto niente di simile e che volevo saperne di più, così ho recuperato e iniziato a leggere Le Sang des promesses (il sangue delle promesse) di Wajdi Mouawad, un ciclo composta da quattro opere teatrali: Littoral (litorale), Incendies (incendi), Forêts (foreste) e, appunto, Ciels (cieli, o Cielos nella versione tradotta al castigliano e messa in scena al teatro de la Abadía di Madrid lo scorso 11 settembre). Ciels segue una squadra impegnata nell’antiterrorismo mentre cerca di prevenire un attentato organizzato da un gruppo di giovani da tutto il mondo in nome della poesia e della bellezza. Un attentato dei “figli” per vendicare la gioventù massacrata dai “padri” nel XX secolo. Il dilemma di Ciels è chiaro: l’avvento necessario di una nuova giustizia che chiuda il ciclo di violenza, e il fatto che questo porti a versare altro sangue. La posizione di Mouawad si può riassumere attraverso le parole di uno degli agenti, Szymanoski: “La poesia è desiderio e se (...) deve diventare a sua volta distruzione del sangue a causa del sangue, allora davvero non ci resterà niente! “ Ciels è quasi un contrappunto ai primi tre testi, che parlano di origini. L’autore, Wajdi Mouawad, è nato in Libano ed è emigrato all’età di otto anni a Parigi per sfuggire alla guerra civile e poi a Montreal, dove si è formato teatralmente. Quello che rende Littoral, Incendies e Forêts così speciali è la verità profonda di cui parlano, quella dell’autore e dei suoi giovani personaggi: la rottura con il paese di origine, la cesura dell’emigrazione, che nega loro la possibilità di conoscersi veramente. A volte la coincidenza è molto diretta: in Incendies la protagonista Nawal racconta del mitragliamento di un autobus pieno di rifugiati, una scena a cui l’autore assistette da bambino, all’inizio del conflitto.
I personaggi di Mouawad sono giovani inconsapevoli che vivono immersi in un flusso gigante e profondo che attraversa le generazioni. La loro faticosa ricerca identitaria (legata a un’identità personale, familiare e umana) è una ricostruzione del passato, della storia intera. Sono gli unici in grado di riscattare le storie, di rivendicare una memoria, di arrivare insieme a un mondo migliore, diverso da quello insanguinato dalle generazioni precedenti. Mouawad, parlando delle fosse comuni in un’intervista, ha dichiarato:
“Se vogliamo fare giustizia, bisognerebbe aprirle e ricomporre la storia corpo per corpo (…) ma questo vorrebbe anche dire ricordare perché sono morti e che qualcuno scopra che nella sua famiglia c’è stato un assassino. Ricordare o dimenticare, è questo il dilemma”.
Buona parte dell’umanità vive scollegata dalla propria identità, perché non è cosciente delle proprie origini profonde, della vera storia della propria famiglia, della società in cui vive. È necessario assumere la memoria (personale e, soprattutto, collettiva) nella sua totalità, con tutte le conseguenze che ne derivano, per capire chi siamo: prendere coscienza significa accedere a un’identità vera, profonda, per quanto terribile. L’attentato di terrorismo poetico in Ciels andrà a colpire musei d’arte contemporanea, mescolando i resti di opere d’arte meravigliose con cadaveri. Il messaggio è chiaro: “Vi obbligheremo a guardare un’opera d’arte all’altezza del secolo”. Lo stesso secolo, lo stesso popolo che ha prodotto opere d’arte meravigliose ha portato a orrori inimmaginabili. Si può riparare il mondo solo affrontando tutta la storia: raccontando, ricordando tutto, accettando le responsabilità che ne derivano. Come afferma Nawal, durante il processo al proprio carnefice (e figlio): “Ogni terra, ogni lingua, ogni storia, è responsabile del suo popolo, e ogni popolo è responsabile dei suoi traditori ed eroi (…) dei suoi carnefici e vittime (…) delle sue vittorie e sconfitte. (…) Non amiamo la guerra né la violenza, e abbiamo fatto la guerra e siamo stati violenti”.