Una postura decoloniale
Il libro Decolonialità e privilegio – pratiche femministe e critica al sistema-mondo di Rachele Borghi rappresenta un potente invito a ripensare le dinamiche di potere e i privilegi che strutturano la società contemporanea. Con una critica incisiva alle dinamiche coloniali ancora radicate nel sapere accademico, nelle strutture sociali e persino nel rapporto tra umani e non umani, l’autrice ci invita a disimparare i modelli oppressivi per ricostruire spazi di alleanza e complicità. Lo fa guidandoci attraverso profonde riflessioni sui privilegi, non solo individuali ma anche collettivi.
“Svestire i panni dell’oppressora e vestire quelli dell’alleata necessita un’attenzione costante, senza abbassare mai la guardia o ritenersi al riparo dal rischio di adottare una postura coloniale.”
Questa vigilanza diventa essenziale in una società in cui il privilegio non si manifesta solo come dimensione individuale, ma come tratto collettivo di intere comunità. Un esempio emblematico è rappresentato dalla difficoltà delle persone bianche o europee di percepirsi come oppressori. Questa incapacità ha radici profonde: implica il rifiuto di confrontarsi con la storia coloniale, con il razzismo sistemico e con i benefici che ne derivano. Come evidenzia Borghi, “Perché andare fino in fondo significa mettere in discussione il proprio ruolo, il proprio posizionamento come gruppo egemone, assumersene le contraddizioni, prendersi il rischio di vedere minata la propria legittimità, in poche parole, di far vacillare i propri privilegi.” La storia italiana offre un esempio calzante di questa rimozione collettiva. Durante il fascismo, il colonialismo italiano in Africa fu accompagnato da un progetto di “sbianchizzazione” del paese, e una rimozione dei nostri crimini di guerra in Etiopia e in Libia. Riflettere sul passato coloniale significa fare i conti con questa rimozione e confrontarsi con le responsabilità collettive: quelle che derivano dall’essere parte di una comunità che ha beneficiato – e continua a beneficiare – di un sistema diseguale. La postura decoloniale, dunque, non è una semplice scelta morale, ma un atto di giustizia storica. Non basta condannare il colonialismo del passato; occorre interrogarsi su come le sue strutture si riproducono oggi, anche nelle relazioni quotidiane e nelle istituzioni. Questo richiede non solo consapevolezza, ma azione: la volontà di “far vacillare i propri privilegi” per creare spazi in cui le storie marginalizzate possano emergere e fiorire. Questa riflessione si intreccia con una critica radicale rivolta al sapere accademico tradizionale, che Rachele Borghi identifica come uno spazio dominato da uomini bianchi. Lei, ricercatrice, attivista e professora alla Sorbona, descrive gli ambienti universitari come una fortezza di privilegi che si auto-riproducono, un luogo incapace di mettersi in discussione. Ove i produttori del sapere non hanno mai preso in considerazione il proprio posizionamento nel mondo (chi sono? Da quale luogo parlo?) in nome di una finta “neutralità” anche nella scelta delle bibliografie dei testi. Il problema, però, è che questi testi poi sono sempre scritti da uomini bianchi, considerati neutri, “il modello universale”, con la pretesa di produrre saperi altrettanto universali, con la pretesa di produrre “LA verità”. Questo sistema, così strutturato, esclude forme di conoscenza alternative e silenzia le voci che mettono in discussione lo status quo. Il sapere accademico, così com’è strutturato, diventa un’arma di controllo e perpetuazione di disuguaglianze, piuttosto che uno spazio di reale emancipazione. L’aspetto decoloniale, qui, è volto a recuperare, dare valore e dignità a tutti i saperi indigeni prodotti ai margini. Il concetto di privilegio si estende, poi, oltre la sfera umana, come sottolinea la prospettiva antispecista del libro. Il privilegio di specie, secondo Borghi, è una delle forme di dominio più radicate e meno messe in discussione. Essere umani è considerato un vantaggio naturale e una giustificazione per lo sfruttamento sistematico delle altre specie viventi. La critica antispecista si inserisce in un discorso decoloniale che sfida i meccanismi di oppressione trasversali, invitando a riconoscere come il privilegio umano abbia contribuito alla distruzione ambientale e alla sofferenza animale. Decolonizzare il pensiero significa anche riconoscere la responsabilità collettiva dell’umanità verso il pianeta e i suoi abitanti non umani. Disimparare il privilegio è un percorso impegnativo, ma necessario, per costruire un mondo in cui i privilegi non siano più strumenti di oppressione, ma leve per il cambiamento.