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TRA INTERNO ED ESTERNO: QUANTO SONO SPESSI I CONFINI DELLE MURA DEL CARCERE?

Dalla prospettiva di Associazione Antigone. Intervista a Sofia Antonelli - Ricercatrice e Coordinatrice dell'ufficio del Difensore Civico di Antigone
A cura di Marta Bello
03 Gen 2024

Ciao, ti chiedo di presentarmi Associazione Antigone: chi siete, cosa fate, quali sono i vostri progetti e obiettivi?

Antigone nasce inizialmente come una rivista, poi da questa esperienza si è formata un’Associazione nel 1991. In breve, ci occupiamo dei diritti e delle garanzie del sistema penale e penitenziario in Italia. Dal ’98 c’è stato un punto di svolta fondamentale nella storia: per la prima volta Antigone ha ricevuto, dal Ministero della Giustizia, le autorizzazioni necessarie ad accedere in tutti gli istituti penitenziari per adulti-e d’Italia, che sono circa 190.

All’interno dell’Associazione c’è un organismo che si chiama ‘L’osservatorio’, ne fanno parte circa 80 persone e si occupano di monitorare le condizioni di detenzione, sono autorizzate ad accedere in tutti gli spazi di tutti gli istituti, eccezion fatta per le persone detenute in regime di 41bis.

Nel 2008 nasce il secondo osservatorio dedicato solo alle carceri minorili, di cui fanno parte circa 20 persone autorizzate che hanno accesso a tutti e 17 gli IPM d’Italia. Il nostro compito principale è raccogliere informazioni dentro e portarle fuori. Questo è il primo confine che cerchiamo di mitigare: tra il dentro e il fuori.

Noi entriamo negli istituti penitenziari e iniziamo a fare un monitoraggio e una lunga serie di controlli, ad esempio: se funziona l’acqua, qual è la dimensione delle celle, quali sono le attività presenti, le criticità e molti altri aspetti, dopodiché scriviamo delle schede sulla struttura e le rendiamo pubbliche. A fine anno raccogliamo i dati relativi a tutte le strutture che abbiamo visitato e facciamo il nostro rapporto annuale, per gli istituti per minorenni è biennale.

Questo confine di cui mi hai accennato, tra il dentro e il fuori, quanto è spesso? Ci sono differenze tra i vari istituti, ci sono casi in cui queste due dimensioni sono più comunicanti?

Il confine tra il dentro e il fuori del carcere è molto alto e spesso. Una delle nostre mission è quella di rendere un po’ più trasparenti le mura dei vari istituti, per provare ad assottigliare questo confine.

È importante che in carcere entri più società esterna possibile, in modo che avvenga un processo di osmosi tra il dentro e il fuori, e che dal dentro si esca fuori il più possibile attraverso attività, percorsi, lavoro.

Sicuramente ci sono realtà diverse tra loro, ognuna ha le sue caratteristiche: geografiche, strutturali, di risorse. Uno degli istituti più ricchi di attività e opportunità è la Casa di Reclusione di Milano Bollate. Ci sono istituti, invece, molto più chiusi e isolati. Dipende anche dalla tipologia di strutture: case circondariali, case di reclusione, a custodia attenuata. 

Il grande problema è che c’è una carenza di attività e di opportunità lavorative, che sono quelle che più possono fare da ponte tra interno ed esterno e diminuire il tasso di recidiva. Se i datori e le datrici di lavoro entrassero di più nelle carceri, per dare qualche opportunità facendo da ponte, sicuramente il confine sarebbe più sottile. 

Il momento del rilascio dev’essere molto delicato, so che voi avete realizzato una guida al riguardo, ti va di parlarmene?

Certo! Tempo fa abbiamo realizzato una sorta di guida: “Riprendiamoci la libertà”, adesso ne stiamo sviluppando altre su base regionale, in modo che siano più precise e ricche di informazioni a livello locale. Ci sono delle indicazioni di base per la persona a fine pena, che si trova ad affrontare un momento molto delicato. In Italia è praticamente assente un percorso di inserimento graduale e di avvicinamento sia al momento dell’ingresso che a quello dell’uscita, nonostante siano fasi cruciali. Il rilascio può essere un momento di grande trauma, soprattutto dopo un lungo periodo di detenzione, e a maggior ragione per chi, una volta fuori, non ha risorse o familiari ad attenderl*. 

L’anno scorso, ma anche quest’anno, si è parlato molto dell’emergenza suicidi in carcere. Avvengono di frequente a ridosso di questi due momenti, quando una persona supera uno dei due confini: in entrata o in uscita.

Secondo te, perché abbiamo bisogno di confinare le persone in luoghi di reclusione isolandole dalla società, erigendo questi alti muri, questi confini così spessi?

In carcere c’è la rappresentazione della marginalità sociale: persone di origine straniera, con disagio psichico, marginalità sociali ed economiche. Rappresentano ciò che magari non vogliamo nemmeno vedere per strada o che la società e la politica non vogliono prendere in carico. Parliamo di situazioni complesse e non semplici da affrontare, che richiederebbero l’uso di risorse (territoriali, sanitarie, sociali) e rinchiudere queste persone è molto più semplice. Tuttavia, se quando escono ritrovano la stessa situazione che hanno lasciato, torneranno a delinquere.

Se pensiamo al bene e alla sicurezza della società, diciamocelo: questa non è un granché come soluzione. Avrebbe molto più senso iniziare percorsi alternativi alla detenzione, ma interni alla società e non intramurari. Ripensiamo all’emergenza suicidi: in molti casi arrivano persone con grandi fragilità e il carcere non è il luogo adatto per prendersene cura. Nella maggior parte dei casi si tratta di una detenzione fine a sé stessa.

Quanto è difficile garantire i diritti delle persone all’interno del sistema carcere?

Moltissimo! L’importanza per Antigone di entrare nei luoghi di detenzione ha tre ragioni alla base:

  1. Il carcere, per definizione, è un luogo chiuso, opaco, lontano dagli occhi di tutt*, dove possono accadere violazioni, spesso in modo indisturbato
  2. All’interno del carcere esistono persone con dinamiche di potere diverse: controllat* e controllori*
  3. Tutto ciò che la persona può o non può fare è deciso e controllato dalle istituzioni. 

So che avete monitorato la situazione delle carcerate donne, quali sono le maggiori differenze che emergono?

L’8 marzo abbiamo pubblicato il primo rapporto di Antigone sulla detenzione femminile, in cui abbiamo descritto tutte le sezioni in cui sono ospitate le detenute, ragazze negli IPM e donne transgender. 

In Italia le donne rappresentano circa il 4% della popolazione detenuta complessiva

Ci sono solo quattro carceri esclusivamente femminili (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia), che ospitano un quarto delle donne detenute. Tutte le altre si trovano nelle sezioni femminili di carceri maschili. Questo fa sì che spesso le esigenze delle donne detenute siano scavalcate dai numeri ben più rilevanti degli uomini. In queste sezioni, infatti, si osserva spesso una marginalizzazione eccessiva e un’altissima carenza di risorse. Il sistema carcere è pensato dal maschile per il maschile, dove all’interno vengono ospitate le donne, spesso le loro esigenze e specificità (ad esempio genitoriali e sanitarie) non sono considerate.

Noi ci occupiamo della difesa civica, per cui le donne non le incontriamo solo in stato di detenzione, ma spesso come familiari delle persone detenute. Le persone che si rivolgono a noi sono donne che si prendono cura di quello che rimane della famiglia, con enormi difficoltà economiche e sociali. Solitamente non si pensa a loro, ma in realtà sono protagoniste di queste storie. 

In Italia c’è anche l’altro grande discorso del mancato riconoscimento all’affettività e alla sessualità in carcere, che si lega ad un altro tema delicatissimo: le famiglie. 

Noi, ad esempio, forniamo supporto per tantissime richieste di trasferimento tra istituti penitenziari perché maggiore è la distanza dai luoghi d’appartenenza, più il confine tra dentro e fuori è invalicabile. Le conseguenze sono che la famiglia non potrà andare spesso a trovare la persona detenuta, considerando la necessità di spostarsi per molti chilometri, chiedere il permesso a lavoro e l* più piccol* che devono saltare la scuola. In questo modo il reinserimento nel territorio sarà ancora più complesso. 

Per di più, attualmente le persone detenute in regime di media sicurezza (quindi la maggior parte) possono fare solo una telefonata a settimana da dieci minuti, e non pensiamo che sia così facile. Il numero di telefoni è limitato, bisogna fare una richiesta scritta e attendere per giorni, e se chi è fuori non risponde, magari perché è a lavoro, è molto difficile recuperare la chiamata della settimana. Sono normative introdotte nel 2000, quando le telefonate erano molto costose e non si usavano. Ad oggi è un’assurdità. Noi da tempo chiediamo che siano incrementate, se non addirittura a liberalizzarle, sempre tenendo conto delle varie fragilità: una telefonata ad una persona cara in un momento difficile può davvero salvare una vita o essere di grande supporto, sia per chi sta dentro sia per chi sta fuori, oltre il confine.

LE DIECI PROPOSTE DI ANTIGONE PER I DIRITTI DELLE DONNE DETENUTE: https://www.rapportoantigone.it/primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/le-nostre-proposte/

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