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TEBE E IL CITERONE

A cura di Anna Toffaloni
27 Mar 2024

Le Baccanti è una tragedia di Euripide del V sec. a.C. Uno dei protagonisti è Dioniso, il dio dell’estasi, della danza, del vino, un dio ambiguo, vitale, gioioso e terribile. È figlio dell’umana Semele e di Zeus, è nato due volte: la prima, prematuramente, dalla madre uccisa dal fulmine a causa della gelosia di Era; la seconda da Zeus, che per salvare il feto lo cuce nella propria coscia. Dioniso giunge a Tebe, città natale della madre Semele, accompagnato da un gruppo di Menadi (o Baccanti, seguaci del culto dionisiaco) raccolte in Asia, dove i misteri dionisiaci sono già diffusi. Il dio si presenta a Tebe sotto le spoglie (umane) di uno Straniero, dichiarato emissario di Dioniso e determinato a far riconoscere e venerare il suo dio come figlio di Zeus. Di fronte al rifiuto oppostogli da Penteo, re della città e suo cugino (cioè figlio di Agave, sorella di Semele, e nipote di Cadmo, il fondatore di Tebe), Dioniso scatena le proprie forze divine in una serie di eventi miracolosi e distruttivi e che condurranno a un finale drammatico per i protagonisti umani (Penteo, la madre Agave e l’anziano Cadmo). Il confronto fra Dioniso e Penteo si sviluppa tra la città di Tebe, controllata dal re, e il monte Citerone, dove le donne tebane strappate ai telai e trasformate in Baccanti “abitano sotto verdi abeti, fra rocce che non hanno tetto”

Questa tragedia ci affascina e ci confonde per la sua fondamentale ambiguità. Ambiguità che sta nelle numerose contraddizioni, nella molteplicità dei punti di vista e delle possibili letture, nell’indeterminatezza del giudizio dell’autore. Dioniso vuole farsi venerare in quanto dio, ma durante tutto il dramma assume le spoglie di un uomo (lo Straniero), persino agli occhi delle sue stesse seguaci. Penteo è un tiranno e domina con la paura, ma alla fine quella stessa paura viene compianta come un indispensabile fondamento della società tebana, senza la quale questa si disgrega.

Dov’è la vera saggezza, dov’è la vera follia? I due poli saggezza-follia ritornano di continuo nella tragedia. Le donne tebane vengono fatte impazzire, “cacciate dalle case”, “costrette” a seguire Dioniso che le spinge con la “sferza della follia” sul monte Citerone, fuori dalla città, dalla società tebana. Nella follia dell’estasi, della possessione divina, compiono miracoli e azioni mostruose, come lo sparagmòs (smembramento rituale) di Penteo, che per come è descritto ha tanto del bestiale e del barbaro quanto del rituale. Per le donne tebane il furore bacchico è una punizione per essersi rifiutate, come Penteo, di riconoscere la potenza del dio; per Agave la soddisfazione della caccia si trasforma in sofferenza una volta recuperata la lucidità, la testa del figlio è “un trofeo fatto di lacrime”. Al contrario, per le Baccanti asiatiche, che vivono per scelta nel culto del dio, l’esperienza dionisiaca è un “dolce tormento”, gioia e dolore, al quale si consegnano fino in fondo. I personaggi si attribuiscono a vicenda, come in un gioco di specchi infinito, la saggezza o la follia, l’incapacità di vedere la realtà. Cadmo e Tiresia avvertono Penteo dell’importanza di celebrare i riti dionisiaci, e lo ammoniscono contro il “fare la guerra agli dei”, chiamandolo per questo pazzo, “e della peggior pazzia” (la hybris, l’arroganza di fronte agli dei). Al tempo stesso, Penteo è l’unico a percepire la vera natura dello Straniero (lo vedrà sotto forma di toro, una delle forme di Dioniso), e lo fa nel picco della sua follia, quando in preda al delirio e ridotto a una bambola nelle mani del dio si lascerà convincere a vestirsi da donna e attraversare così la città fino al monte dove verrà smembrato dalle Baccanti. In questo momento che Dioniso gli si rivolge dicendo: “Prima la tua mente era malata: ora è come deve essere”. Penteo, cioè, non è più in preda al delirio umano della hybris, ma alla possessione dionisiaca, anche se questa significa per lui solo dolore e morte. Ancora, nel finale prevale il punto di vista di Agave e Cadmo, in quanto umani e componenti di una società e di una famiglia per cui Dioniso ha significato dolore e disgregazione. In genere i finali hanno una certa importanza: e molto nella tragedia sembra farci inclinare a favore degli dei, l’ultima parola nelle Baccanti è agli umani. 

Quindi, di cosa vuole parlarci Euripide? Dell’impotenza umana di fronte agli dei, della fragilità della razionalità umana davanti alle forze primitive e radicali della vita e del destino? O, al contrario, nel rappresentare le conseguenze del furore bacchico in modo così crudo, vuole avvertirci dell’inumanità della religione, l’insensatezza di seguire un dio che non ha mezze misure? Questa tragedia ci strega e ci confonde per la molteplicità dei punti di vista e l’indeterminatezza del giudizio. Abituati ad avere delle risposte, ci facciamo delle domande: cosa pensa l’autore? Cosa devo pensare io? Qual è la vera follia, quale la vera saggezza nelle Baccanti? Euripide da nessuna parte ci dice cosa pensare, o meglio: lo fa, e poi si contraddice, e si diverte a giocare con la nostra confusione. Forse questo per me è l’aspetto più interessante delle Baccanti: non c’è una risposta definitiva, e mi piace pensare che sia perché non c’è mai stata ed Euripide ne era consapevole, e non solo perché a distanza di secoli comunque non potremmo conoscerla. Mi piace anche pensare che ci sia una terza alternativa fra la violenza inumana di un dio e quella di un potere arrogante che si sente minacciato da tutto ciò che esula dal proprio ordine: che ci sia un posto che non è il Citerone, né Tebe, e che quel posto forse lo costruirà Agave nel suo esilio. In questo caso si tratterebbe di una specie rara di follia, forse quella che ci vuole nel nostro mondo.

Baccanti di Tebe, 

il canto che avete intonato da grido di vittoria si è
mutato 

in lacrime e lamento. 

(Baccanti, coro)

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