
SUPERATO IL CONFINE, HO TROVATO ME STESSO
Era un classico pomeriggio di metà settembre, il lavoro e le molteplici attività da fare, un po’ tipiche di quel periodo, quasi non lasciavano spazio a pensieri esterni. Gli occhi delle persone erano incollati ai loro monitor e il tempo volava. L'ufficio era avvolto da una tranquillità sospesa, le luci soffuse creavano un'atmosfera quasi autunnale, mentre i suoni delle tastiere e dei telefoni si fondevano in un sottofondo costante. Lo immaginavo così per tutti e tutte, tranne che per me. Io ero seduto alla mia scrivania, con gli occhi fissi sullo schermo del computer e le mani sudate, mentre cercavo di radunare il coraggio necessario per affrontare una conversazione che avevo rimandato per troppo tempo.
In ufficio ero conosciuto con un nome che non sentivo mio, diverso da quello con cui mi identificavo nella vita di tutti i giorni, dove avevo abbracciato a pieno la consapevolezza di essere un ragazzo transgender.Da poco tempo, a seguito di uno stage, mi era stata data la possibilità di lavorare in azienda a tempo determinato e questo giocava un duplice ruolo: da una parte la tranquillità di avere un lavoro ancora per un po’, dall’altra la doverosa necessità di raccontare di me. Inoltre, avevo iniziato la terapia ormonale mascolinizzante e questo avrebbe comportato a breve i primi cambiamenti.
Avevo deciso di parlare con la mia responsabile, una figura nota e molto rispettata in azienda, non solo perché era il mio riporto gerarchico, ma soprattutto per la sua capacità di trasmettere sicurezza, apertura e professionalità. Rappresentava per me un sinonimo di influenza e carisma, una presenza sempre avvertita. Lei era cresciuta professionalmente all’interno dell’azienda e conosceva molto bene le diverse dinamiche. Lavorava inoltre a stretto contatto con la direzione e questo mi aveva dato l’idea e la speranza che fosse un ponte di comunicazione con tutti e tutte. Un po’ come se, dicendolo a lei, tutto il resto sarebbe stato in discesa. Quella mattina le avevo scritto che dovevo parlarle e ci eravamo accordati per le 16:30. Per varie vicissitudini però, poco prima mi aveva comunicato che avrebbe tardato.
L'orologio scorreva inesorabilmente e ogni secondo che passava sembrava un'eternità. L'ansia cresceva dentro di me come un'onda inarrestabile, ma dovevo farlo. Finalmente alle 16:45 mi arrivò il messaggio: “Eccomi, quando vuoi ci sono!”. Con il cuore che batteva a mille, mi avvicinai al suo ufficio e con la testa mi affacciai all’interno. Le sollevò lo sguardo dal computer e mi sorrise gentilmente. Era il sorriso che avrebbe cambiato la mia vita. Con voce tremante e un rospo in gola, iniziai a raccontarle la mia storia. Spiegai quanto fosse stato difficile per me accettare chi fossi veramente e come un percorso psicologico mi aveva portato alla consapevolezza della mia identità di genere. Passai circa dieci minuti a parlare ininterrottamente, cercando di giustificare ciò che ero, come ero, perché lo ero ed era sempre più difficile.
La voce si tagliava, il rospo si faceva più forte e le parole soffocavano. Pronunciai le ultime parole rimaste prima del blackout mentale: “E quindi mi chiamo Ilean”.
La mia responsabile, che aveva ascoltato attentamente e in silenzio, mi sorrise di nuovo e dopo una brevissima pausa mi fece una sola domanda: "Tu come stai?". Rimasi spiazzato. Non aveva giudicato o fatto domande scomode, non aveva spalancato gli occhi in sgomento, non aveva la bocca aperta pronta a cacciarmi fuori. Si stava solo preoccupando sinceramente del mio benessere. Le risposi a voce mozzata: “in ansia” e lei sorrise di nuovo, dopodiché continuò con un discorso. Mi disse che era contenta per la fiducia che le avevo dato e che quella mia storia non toglieva nulla al mio lavoro in azienda, ma che anzi, lo aggiungeva. Era una riconferma di ciò che lei pensava di me, ossia che sono una persona onesta e trasparente, due valori che lei reputa fondamentali nelle persone e per l'azienda stessa. Poi mi chiese se ero disposto a lavorare con l'azienda per capire come potevamo procedere insieme in questo percorso, se potevo dar loro un aiuto a comprendere meglio il tema e gli step a cui avevo pensato di lì in avanti. Mi assicurò che avrei avuto tutto il supporto di cui avevo bisogno.
Mentre lei parlava, quel rospo, quell’ansia, quell’affanno, sbiadivano a poco a poco, fino a dissolversi completamente. Questo confine interiore, che avevo appena superato, aveva aperto la porta a una nuova fase della mia vita, in cui potevo essere me stesso, finalmente, ovunque.