STELUTIS ALPINIS, LA CANZONE DAL CONFINE
Se è esistito un momento in cui la maggior parte delle persone italiane ha deciso e compreso con durezza quale sia il significato del concetto di confine nazionale, dobbiamo guardare verso la Grande Guerra del 15-18 per trovarlo. E se c’è un mondo musicale che da quella guerra è nato, e ancora vive, questo è il canto delle corali maschili “della montagna”; quei gruppi e contesti canori nati sul modello dei cori militari di caserma. E che spesso il grande pubblico associa all’arma degli Alpini.
Ma non tutti i loro capolavori sono di penna militare, anzi. Il capolavoro di questo repertorio, Il Signore delle Cime, è opera di un maestro veneto straordinario, Bepi de Marzi, che di militare ha ben poco (e anche di bellico, perché il brano è del ‘54, ed è dedicato a un caduto in montagna, non a un caduto di guerra sui monti).
E anche Stelutis Alpinis, sebbene molto presto assorbito dai repertori militari ufficiali, e insignito di cappelli patriottici, come spesso accade, era nato da un istinto non esattamente nazionalista e guerresco. L’autore è Arturo Zardini detto Turo Mulinâr (1869-1923), che la compose da adulto, durante la guerra, mentre era sfollato. Lui, originario di Pontebba, paesino quasi al confine austriaco, funzionario pubblico e maestro di banda, rimase sfollato quasi da subito, prima a Udine e poi in Toscana. Proprio da lontano, leggendo le notizie di guerra e devastazione sulle montagne che ben conosceva, produsse il pezzo: testo e musica. Il brano (di cui consiglio una qualsiasi esecuzione del coro SAT) è in effetti un capolavoro di eleganza e tensione emotiva. Il testo, in friulano, che però in qualche modo risuona nel cuore di chiunque una montagna l’abbia calpestata, e la musica, scandita da un ritmo unico e spezzettato, ci portano sulle creste montane dove molti giovani persero vita, dignità e futuro, tra le esplosioni di artiglieria e i colpi di moschetto. Il testo originale racconta con grande delicatezza dell’angolo ove è sepolto il giovane caduto, ora ricoperto da stelle alpine, che tanto vorrebbe condividere e donare alla sua bella, rimasta lontana e ora sola per sempre - mai si menzionano la patria, la gloria, l’Italia… Eppure, per pennellare di tricolore cimiteri e sacrari, e più in generale la memoria collettiva, il mondo dell’esercito tentò di metterci il cappello. Il Colonnello Vincenzo Palladini di Udine scrisse a Zardini nel 1921: “Illustre Signore, essendomi caduta sott’occhio la sua bellissima poesia “Stelutis alpinis”, avrei pensato di farla incidere su di una lapide per adornare uno dei nostri cimiteri di guerra in Carnia. Ma a ciò manca nelle mirabili strofe, così piene di sentimento, un accenno alla Patria, che le farebbe più appropriate alle tombe di soldati morti per essa. E’ ardimento soverchio il mio, senza che abbia nemmeno l’onore di conoscerLa di persona, di pregarLa a voler mutare quanto basti perché corrispondano allo scopo?”.
Zardini rifiutò fermamente.
Ma dopo la sua morte, un suo conoscente, tale Bierti, aggiunse due strofe… Che adornano il cimitero di guerra di Timau, e qualcuno canta in aggiunta alle originali, senza farsi troppe domande.
Dall’altra parte, militarismo o meno, per tutti i friulani “Stelutis alpinis” è il canto del caduto sui monti, ma è quasi un inno, un inno al Friuli, un inno di una terra che ha vissuto altre sofferenze: un’altra guerra, lotte fratricide, invasioni e dolorose migrazioni. Un inno teso e cantato sottovoce di una terra di confine.