SORVEGLIARE E PUNIRE

11 Apr 2022

Siamo ciò che siamo o siamo ciò che vogliamo essere?

Nel gennaio del 2015 Alessandro Michele debuttò alla guida di Gucci con una collezione che ha aperto un nuovo orientamento nel mondo della moda maschile: tuniche fiorate, bluse con il fiocco al collo… I ventenni di allora non fecero neanche un plissé e si ritrovarono immediatamente in quello stile; gli adulti, invece, osservavano spaesati interrogandosi su chi si sarebbe potuto vestire in quel modo nella vita di tutti i giorni.

Tutto ciò accadeva sette anni fa, in un periodo in cui il dibattito filosofico e sociologico aveva già da tempo messo in discussione molti assunti e molte convenzioni che hanno caratterizzato il conformismo e gli stereotipi della cultura europea e occidentale della seconda metà del XX secolo.

Oggi nella moda parlare di genderfluid è un concetto sdoganato; il confine tra moda maschile e femminile continua ad esistere, ma i comportamenti di acquisto dei consumatori mostrano una maggiore libertà nel transitare tra capi femminili e maschili a prescindere dal fatto che questa scelta sia legittimata da brand con collezioni ad hoc.

La questione di cosa sia portabile, dal punto di vista dell’abbigliamento, ha origini profonde: tutta la storia dell’umanità poggia sull’idea che il sesso biologico determina in maniera definitiva il genere di un individuo. Per la nostra cultura, soprattutto la cultura borghese, disporre della certezza rassicurante di individui, che nella loro natura biologica sono definiti intrinsecamente rispetto alla loro funzione specifica (maschile e femminile) nel contesto sociale senza tener conto del loro orientamento sessuale, garantisce forme “implicite” e antropologicamente strutturate per orientare e controllare i comportamenti e le relazioni.

Il tema è stato messo sotto analisi e giudizio a partire dagli anni ‘70 dalla lucida e spietata analisi di Michel Foucault che, con “Sorvegliare e punire”, ha aperto uno sguardo divergente e innovativo nel mostrare quanto il potere istituzionale utilizza forme di controllo, punizione e rieducazione per garantire che comportamenti devianti dagli standard sociali non facciano vacillare uno “status quo”, utile ad assicurare la replicazione di modelli di relazione e di potere funzionali alla società stessa.

Il paradigma, secondo Foucault, si riferisce non solo alle forme di devianza sociale su cui è auspicabile che si applichi (criminali, assassini, truffatori, ecc.), ma anche a quelle che riguardano degenerazioni psichiche e trasgressioni di genere, che negano il binomio di una relazione strutturale tra sesso biologico e genere.

Credo che non occorra essere antropologi o filosofi per ricordare quanto anche in un passato recente le istituzioni (scuola, ospedali, famiglia, esercito, religione, ecc.) abbiano svolto “istintivamente” e in maniera convergente azioni di formazione e rieducazione per garantire la continuità del paradigma.

Lo dimostra quanto fu dirompente, per la cultura italiana, la pubblicazione nel 1973 del libro “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti, prima sostenitrice nel panorama italiano del concetto che la tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina non è dovuta a fattori “innati”, bensì ai “condizionamenti culturali” che l’individuo subisce nel corso del proprio sviluppo. Nella riflessione dell’autrice la società e la cultura, alle quali apparteniamo, si servono di tutti i mezzi a disposizione per ottenere dagli individui di entrambi i sessi il comportamento più adeguato ai valori che si impone di conservare e trasmettere: fra questi anche il “mito” della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile. 

La critica, contenuta nel testo di Gianini Belotti, indica una nuova visione rispetto al ruolo educativo delle istituzioni che “non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene”.

Nella nostra cultura questo focus ha impiegato cinquant’anniper divenire un principio teoricamente riconosciuto e condiviso, ma ancora non interiorizzato né naturalizzato. 

Viviamo un’epoca in cui il linguaggio è quotidianamente intriso di espressioni svalorizzanti rispetto alla classificazione di individui che non soddisfano i requisiti di una cultura orientata al riconoscimento dell’eterosessualità come valore e strumento per replicare gerarchie di potere nella società.  

Il pensiero strutturalista (Foucault e Lèvi-Strauss) ha posto l’accento su quanto i comportamenti individuali sono determinati dalle strutture in cui l’individuo si trova ad agire e le riflessioni post strutturaliste di Derrida sull’indefinibilità dell’Essere attraverso il linguaggio hanno reso molto evidente che la presenza di strutture metafisiche e fondanti l’analisi della realtà debba essere sottoposta a un processo di decostruzione della “metafisica della presenza”, fondamento della filosofia occidentale, per costruire paradigmi più pertinenti rispetto alla complessità antropologica e fenomenologica. 

Detto in termini più concreti, il tema con cui ci misuriamo riguarda l’incapacità del nostro mindset di osservare il contesto in cui viviamo, decostruendo i paradigmi, ovvero le strutture con cui siamo formati a descrivere quello che vediamo in una prospettiva di giudizio di valore: questo processo, tuttavia, non riguarda semplicemente l’approccio soggettivo (dell’individuo) alla materia d’indagine, poiché ciò che accade alle “strutture” costituisce la cultura di un’istituzione; quindi è attraverso la trasformazione delle stesse strutture che è possibile generare un cambiamento collettivo capace di riconoscere e includere la differenza anche nelle istituzioni. 

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