SIAMO LE PAROLE CHE PRONUNCIAMO - L'intelligenza linguistica e la media literacy che ci mancano

03 Dic 2020

Maria Cristina Origlia

La cronaca quotidiana offre innumerevoli esempi di un uso del linguaggio inconsapevole – e, a volte, volutamente spregiudicato - nella narrazione della realtà da parte di media, politici, esperti o presunti tali. Proprio nei giorni in cui compongo questo articolo apprendo della spumeggiante elezione a Magnifica rettrice dell'università La Sapienza di Antonella Polimeni, preside della facoltà di Medicina, prima donna alla guida dell'accademia in 7 secoli. Una gran bella notizia, senonché inquinata dalla ripetizione – quasi ovunque - del trito e ritrito “soffitto di cristallo” che viene infranto da un'altra - eroica - donna. Un'immagine retorica che non fa altro che sottolineare la mission impossible a cui pare destinata la genìa femminile, sottraendo attenzione al programma presentato da Polimeri - in cui parla di diversità, inclusione, biodiversità - e depotenziando l'afflato di quella parte della popolazione che crede nell'equilibrio e nell'intelligenza di genere.

E quando parlo di afflato mi riferisco alle reazioni chimiche che le parole “sbagliate” scatenano nel nostro cervello, condizionando il nostro umore, i nostri pensieri e i nostri comportamenti. Sin dalle scoperte del neurologo Paul MacLean negli anni Settanta, sappiamo che il nostro cervello rettile è quello più istintivo e ha bisogno di potersi fidare, cerca credibilità; il cervello limbico è legato all'emozione, all'empatia, all'appartenenza e seleziona cosa trasmettere alla neocorteccia, che valuta rapidamente e prende decisioni sulla base delle informazioni filtrate dai primi due cervelli. Dunque, comunicare nella sequenza corretta e usare la semantica adeguata ai tre step cognitivi è fondamentale per trasmettere messaggi efficaci. Lo spiega molto bene Paolo Borzacchiello nel suo ultimo libro “Il codice segreto del linguaggio” (ROI Edizioni, 2019), quando analizza una delle metafore più utilizzate per descrivere incautamente la pandemia: la guerra. Ebbene, è dimostrato che termini come “assalto”, “sotto attacco”, “fronteggiare” provocano scariche di adrenalina nel sangue e parole come “bloccato”, “brancolare nel buio” o “freno a mano tirato” vengono processate in senso letterale dal cervello rettile, provocando micro scosse al sistema nervoso parasimpatico che “paralizzano” il corpo. Ovvero, afferma Borzacchiello, ci procurano un grande stress, gettandoci in una situazione di frustrazione in cui diventa molto difficile prendere decisioni sensate. Cosa pensate allora che generi in noi la parola “lockdown”?!...

Cambiamo argomento e affrontiamo un altro tema estremamente delicato: l'immigrazione. Anche in questo caso, se noi la definiamo come una “invasione” o “un'onda”, scateneremo reazioni viscerali, mettendo in allerta il cervello rettile che riceverà il messaggio di doversi difendere. “Definire l'immigrazione come un'emergenza umanitaria può spostare radicalmente il focus” scrive l'autore, aggiungendo che il noto linguista e analista della comunicazione politica americana, George Lakoff, afferma “come siano le metafore scelte dai vari partiti politici a influenzare la percezione degli argomenti proposti e quindi i voti”. Direi che The Donald ci ha offerto, negli ultimi quattro anni, un deprimente quanto efficace (verso il suo pubblico di riferimento, poco istruito) repertorio di metafore. Se da una parte la comunicazione di leader e decisori - politici e non - è fondamentale per orientare l'opinione pubblica, dall'altra, tuttavia, non si può sottacere la responsabilità di ciascuno di noi nell'esercitare una cittadinanza attiva, che passa attraverso la capacità di discernere e orientarsi nel sovraccarico informativo cui siamo sottoposti. E qui, entra in gioco la media literacy education, ovvero l'alfabetizzazione e la formazione cognitiva ai media e al digitale. Come argomenta Federica Spampinato nel libro “La nuova scienza del rischio. L'arte dell'immaginazione, della difesa e della protezione” (Guerini e Associati, 2020), l'informazione risponde sempre più alla cosiddetta agenda setting. In sostanza, i media stessi (e chi c'è dietro) decidono quali argomenti trattare con enfasi e quali non toccare. Un esempio? Basti pensare a “l'informazione televisiva durante la pandemia Covid 19, indirizzata a saturare il telespettatore polarizzandolo ora verso l'allarmismo (che cela il sensazionalismo), ora verso la reiterazione compulsiva di notizie e informazioni monotematiche, con la possibilità di ottenere, in entrambi i casi, reazioni non funzionali alla gestione dell'ordine sociale”. Nell'ambiente digitale, poi, i rischi di manipolazione aumentano a dismisura e l'utente - spesso e volentieri - non è in grado di difendersi da fake news, da messaggi di istigazione all'odio e alla violenza, da contenuti di tipo sessista, sessuale, razzista, ecc. Secondo l'autrice “il rischio è non capire che il mondo digitale non è una digitalizzazione del mondo fisico. Cambiano infatti le dinamiche identitarie e con esse le dinamiche sociali, perché regolate dagli stessi codici e dalle stesse norme di contesto, linguaggio, comunicazione. È cambiata la relazione: deve evolvere l'intera consapevolezza”. Un lavoro enorme, che richiederebbe l'impegno di tutti gli attori coinvolti, generando quel dialogo intergenerazionale necessario per creare un nuovo lessico condiviso (oltre a qualche buona regola), con cui abitare correttamente l'ambiente digitale. Quello che stiamo vivendo, paradossalmente, potrebbe essere il momento propizio per una transizione governata verso una vera società digitale, in una logica inclusiva, che recuperi anziché acuire le disuguaglianze esacerbate dagli effetti della pandemia. Non certo con una comunicazione come quella del Commissario straordinario per l'emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, nel tweet che recitava “Il vaccino in Italia arriverà a gennaio, ma non per tutti”. Piuttosto, con parole simili a quelle pronunciate da Kamala Harris, nel suo discorso di accettazione della nomina a vicepresidente degli Stati Uniti d'America: “I neri, i latinoamericani e gli indigeni soffrono e muoiono in modo sproporzionato. Questa non è una coincidenza. È l'effetto del razzismo strutturale, delle disuguaglianze nell'istruzione e nella tecnologia, nella sanità e negli alloggi, nella sicurezza del lavoro e nei trasporti”.

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