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SAN SERVOLO,LA FOLLIA RECLUSA

Dal manicomio al museo
A cura di Gianluca Cabula
28 Mar 2024

In principio era la “fusta”, un battello fatiscente, ormeggiato in laguna di fronte a Palazzo Ducale: già dal Quattrocento era diventato un luogo di pena e di segregazione dove potevano essere ammassatƏ decine di condannatƏ, ammalatƏ e pazzƏ poverƏ. È nel 1725 che viene inviato nell’isola di San Servolo, già occupata da comunità monastiche e ormai in stato di semiabbandono, il primo “pazzo” per ordine del Consiglio dei Dieci. Nel Registro dei malati 1725-1812, si legge infatti: A dì 26 ottobre 1725/Ill.mo Signor Lorenzo Stefani fu Sebastiano di anni 32, fu condotto in quest’isola dall’Eccelso Consiglio dei Dieci come pazzo. Illustrissimo, non nobile. Probabilmente un agiato borghese. Nei primi decenni di vita, San Servolo ospita infatti per lo più persone nobili o benestanti, con parenti in grado di pagare la mesata del ricovero a pagamento. Per le persone più povere continuava ad andar bene la “fusta”. Con la caduta della Repubblica (1797), la municipalità decide finalmente di ricoverare a San Servolo anche le persone folli povere “a spese dell’erario”: nel 1804 l’Ospedale viene dichiarato Manicomio Centrale, per entrambi i sessi, di tutte le Province Venete, della Dalmazia e del Tirolo, diretto dalla congregazione Fatebenefratelli. L’assistenza a carico dell’erario determina, ovviamente, un considerevole aumento dei ricoveri. Nella seconda metà dell’800, il passaggio da una società prevalentemente agricola a una società agricolo-manifatturiera, provoca un maggiore sfruttamento di contadini e contadine, e un impoverimento delle campagne. La miseria e la fame dilagano, l’alimentazione è scarsa e insufficiente. Aumentano, di conseguenza, le persone inabili al lavoro e si diffondono, a livello endemico, l’alcolismo e, soprattutto la pellagra. Quest’ultima, di origine alimentare, è responsabile nei suoi quadri clinici più avanzati anche di disturbi psichici, che venivano erroneamente interpretati come sintomi di una malattia mentale. E curati di conseguenza. La psichiatria italiana si riorganizza con la legge del 1904 e un regolamento applicativo del 1908, dove vengono definite anche norme di tutela della persona malata di mente ricoverata. La legge viene preceduta, da una serie di “scandali manicomiali” denunciati, in diverse situazioni, dalla stampa: protagonista di uno di questi scandali fu Padre Camillo Minoretti, che a seguito dell’inchiesta, fu “esonerato dall’ufficio di Direttore di San Servolo”, soprattutto a causa dei “barbari mezzi di coercizione” utilizzati nell’ospedale e delle deprecabili condizioni igieniche (“4 sole bagneruole per quasi 700 individui”). Dopo le accuse della stampa ed il processo, perso da Minoretti, i Fatebenefratelli abbandonano l’isola. Negli ultimi decenni dell’istituzione, l’organicismo, l’approccio farmacologico, l’uso dell’elettroshock e delle tradizionali pratiche di contenzione – percorsi collaudati e largamente egemoni – non sono tuttavia gli unici protagonisti della vita asilare: qualche psichiatra coraggiosƏ, che opera a San Servolo in quei decenni, va infatti controcorrente e cerca di realizzare, nel contesto manicomiale, forme di psicoterapia di gruppo. Edoardo Balduzzi, ad esempio, si distingue per il suo tentativo di sperimentare a San Servolo l’approccio gruppale e biopsicosociale elaborato da M. Woodbury nell’America degli anni Sessanta. Spunti fecondi, che la rivoluzione di Franco Basaglia riuscirà a sviluppare e far esplodere. Il 13 agosto 1978, subito dopo il varo della legge 180, si conclude la storia manicomiale di San Servolo: gli ultimi ricoverati lasciano l’isola e vengono trasferiti in altre sedi ospedaliere.

Dopo quasi trent’anni dalla chiusura dell’ospedale, San Servolo è diventato nel 2006 un museo, che propone un percorso storico attraverso la cura della pazzia negli ultimi tre secoli, mettendo in evidenza la dimensione emarginante e segregante dell’istituzione manicomiale. Il museo raccoglie documenti (cartelle cliniche, registri, stampe, fotografie), strumenti di contenzione (manette, bloccacaviglie, manicotti), manufatti dei pazienti (dipinti, oggetti); docce per l’idroterapia (si pensava che “irrigazioni” d’acqua sul cranio dei malati giovassero alla mente).

In fondo a un corridoio di vetrine piene di apparecchiature per l’elettroshock, colpisce l’occhio un pianoforte a coda: proprio qui, infatti, fu sperimentata per prima volta la musicoterapia da Cesare Vigna, medico primario a San Servolo dal 1856 e grande amico di Giuseppe Verdi.

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