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Salute e lavoro: la medicina di genere come leva concreta per il cambiamento

Riconoscere le differenze di genere in azienda rappresenta un passo strategico per migliorare la qualità della vita, creando ambienti di lavoro più equi, inclusivi e produttivi. Ne parliamo con Sasha Damiani, medica ed esperta di salute di genere
A cura di Antonella Patete
25 Set 2025

«Portare la medicina di genere nelle aziende significa riconoscere le specificità femminili per correggere gli squilibri e migliorare la vita e il lavoro di tutte e tutti».

Sasha Damiani è medica, esperta di salute di genere, docente universitaria e divulgatrice scientifica. Insieme ad Arianna Marchente ha fondato Peer, un progetto che porta la salute di genere e la longevità attiva nei contesti organizzativi, con l’obiettivo di promuovere una health equity concreta e sostenibile.

Dottoressa Damiani, che cos’è la medicina di genere e perché è importante?
La medicina di genere è spesso considerata come la “medicina delle donne”, ma in realtà studia in che modo sesso biologico e genere influenzino la prevenzione, la diagnosi, la cura e l’impatto delle malattie. Si tratta di due concetti distinti: il sesso comporta effetti biologici, mentre il genere influisce su come le malattie vengono percepite, riconosciute e trattate. Questo approccio è ancora poco integrato nella medicina “tradizionale”, che continua a basarsi prevalentemente sul modello maschile e sul maschio bianco in particolare.

Quali sono gli stereotipi più radicati in medicina?
Il dolore e i sintomi femminili sono spesso poco creduti e indagati. Agli uomini, invece, non è concesso nessuno spazio per la fragilità emotiva. Perché, se le donne vengono in qualche modo perdonate in quanto “isteriche” ed “emotive”, gli uomini non possono mostrare debolezze.

Cosa ci dicono i dati sulla salute di genere?
Secondo un recente studio del McKinsey Health Institute, le donne vivono in media più degli
uomini, ma vivono peggio. Trascorrono il 25% di tempo in più in cattiva salute, soprattutto durante gli anni lavorativi. Accade anche perché spesso devono farsi carico del lavoro di cura, mettendo in secondo piano la propria salute. Questo squilibrio è chiamato gender health gap. Se lo colmassimo, ogni donna guadagnerebbe 2 giorni e mezzo di salute in più all’anno.

E sul fronte della salute mestruale?
È un tema ancora troppo poco esplorato. Il 79% delle donne sperimenta sintomi legati al ciclo mestruale che impattano sul lavoro e l’8% pensa al part-time o alle dimissioni. Eppure molti di questi sintomi sono trattabili. Ma spesso manca l’informazione o, peggio, manca la consapevolezza che si potrebbe stare meglio.

Cosa accade quando arriva la menopausa?
Le donne che oggi hanno 40 o 50 anni in genere non hanno ricevuto un’educazione aperta su questi temi. Così si trovano a fare i conti con il doppio stigma del corpo femminile e dell’età. In molti ambienti di lavoro, essere oltre una certa età equivale a essere percepite come meno produttive. Se poi parli anche dei tuoi disturbi, hai paura di essere discriminata. Il fatto è che ancora oggi la salute della donna viene considerata quasi esclusivamente dal punto di vista riproduttivo: fertilità, gravidanza e parto, sembra non esserci altro.

Qual è l’impatto sul lavoro?
Secondo una ricerca presentata lo scorso marzo da Ipsos, in Italia 17 milioni di donne sono in perimenopausa o menopausa. Inoltre, l’80% delle lavoratrici in menopausa soffre per sintomi non affrontati adeguatamente e il 75% ha difficoltà a parlarne persino in famiglia. Una su 10 ha lasciato il lavoro e una su 3 ha ridotto l’orario o chiesto il part-time. Il 20% si sente in imbarazzo con le colleghe, manifestando la difficoltà di affrontare apertamente l’argomento anche tra donne. Infine, una su 10 ha perso giorni di lavoro a causa dei sintomi, con una media di 9 giorni all’anno.

E per le persone transgender?
Quando si parla di salute femminile si dà spesso per scontato che si parli solo di donne cisgender. Ma ci sono persone non cisgender che vivono gli stessi disagi ormonali. Per loro il peso è ancora maggiore, perché si aggiunge anche il tema dell’identità.

Come si può agire concretamente nel contesto lavorativo?
Le aziende possono diventare una leva straordinaria di cambiamento. Hanno il potere non solo di dare il buon esempio, ma anche di formare, sensibilizzare e costruire cultura con azioni semplici e a basso costo. Anche le community aziendali possono fare molto. Esistono gruppi su tutto: disabilità, genitorialità, LGBTQIA+, ma raramente sulla menopausa. Si tratta soprattutto di parlare e condividere esperienze, magari sotto la guida di esperte. Nelle aziende inglesi che hanno adottato policy “menopause friendly”, le assenze si sono ridotte del 70%. E anche la retention è migliorata: le lavoratrici over 40 spesso rappresentano talenti che non andrebbero persi. Infine, la produttività è salita con una media di 9 giorni di assenza in meno all’anno per persona.

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