LA TELA | Rubrica Arte - Gino De Dominicis
Margherita Animelli
“Sinceramente, se la Madonna rideva, ci venivo”
“Sì, la Madonna rideva”
“Sempre miracolo è”
Chissà se Massimo Troisi dieci anni prima di dirigere “Scusate il ritardo”, passeggiando per le strade della sua città natale, si fosse imbattuto nella statua di Gino De Dominicis “La Madonna che Ride”, esposta per la prima volta alla Galleria Modern Art Agency di Napoli nel 1972. Si sarebbe palesata davanti a lui la classica statua della Madonna di tradizione cattolica occidentale, creatura celeste e pura, pallida, completa di abito bianco e manto azzurro. E’ tutto perfettamente canonico, a parte quel sorriso che le taglia il volto. Di fatto è una piccola difformità, nemmeno poi così immorale, ma ci punge, ci disturba: i significati ci appaiono sconvolti.
Sempre nello stesso anno partecipa alla sua prima Biennale di Venezia e espone “Seconda soluzione di immortalità: l’universo è immobile”. Occupa la sala con tre opere precedentemente esibite, tre di quelle cose che non esistono: il “Cubo invisibile” del 1967, quattro linee bianche per terra delineano il perimetro di un cubo evanescente; la “Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo” del 1968; “Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra”, esposta materialmente appunto con una pietra e Paolo Rosa, un ragazzo veneziano, seduto in un angolo davanti ai tre oggetti.
L’opera di De Dominicis ruota sempre attorno ai temi della morte e dell’immortalità, della sospensione del tempo e della sua perpetuità, ed è proprio nel giovane che decide di esporre, custode delle tre opere, che coglie l’immortalità. Immortalità intesa come una dimensione diversa, dove lo spazio e il tempo sono immobili e quindi non esistono, sono assenza e senza questi non esiste nemmeno un modo per morire. Paolo Rosa è un ragazzo con la sindrome di Down.
In poche ore scoppia lo scandalo: si attua una chiusura militare della sala (per citare Eugenio Montale, uno dei pochi che si espose per difendere l’artista, che nel 1975, durante il suo discorso ufficiale in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per le Lettere, restituì valore a quest’opera così significativa e emblematica) e l’artista e il suo assistente, Simone Carella, denunciati con l’accusa di “sottrazione di persona incapace”. Gino De Dominicis aveva già espresso la sua riguardo alla sindrome di Down concependola non come malattia ma bensì come una differente condizione dell’essere, in cui la dimensione spaziale e la concezione temporale funzionano in maniera diversa, così come quella del visibile e dell’invisibile. Ci dice che il giovane doveva essere concepito come un extraterrestre, un essere in grado di interagire con la realtà con un punto di vista diverso, attraverso un approccio che appartiene ad un’altra dimensione, diverso da quello giudicato normale. Estrae una persona affetta da sindrome di Down da una concezione universalmente pietosa e la inserisce nel mondo dell’arte nella veste di perfetto performer, parte integrante dell’operazione di De Dominicis che grazie a queste sue fondamentali caratteristiche, o se così vogliamo chiamarle grazie alle sue diversità, è l’incarnazione di una possibile soluzione di immortalità.
“Assolto perché il fatto non sussiste” il verdetto finale del processo.
Attraverso Paolo Rosa, come con la Madonna che Ride, Gino De Dominicis opera una distorsione di ciò a cui siamo abituati, che perciò facciamo fatica ad accettare o addirittura ci scandalizza. Grazie a un immaginario che sfora dalla classica educazione iconografica e sociale ribalta la concezione del giusto e dello sbagliato, in cui essere diverso è un’opportunità, ha il suo valore e l’emarginazione non è contemplata come realtà possibile.