Privilegi e responsabilità: un caffè con Mario Calabresi
È un martedì di novembre, a Torino ci sono pochi gradi sopra lo zero e il cielo turchese è striato. Metto due maglie di lana una sopra all’altra e un cappotto lungo fino ai piedi, per cercare di limitare gli spifferi indesiderati. Mentre pedalo con la mia Bianchi rosa cigolante, ripenso a quando avevo l’età di Emma e Irene - le figlie di Mario Calabresi - e sognavo di fare il lavoro del loro papà. Sono passati più di 10 anni e in questo tempo quel desiderio si è realizzato in tanti modi diversi, nessuno canonico, fino ad oggi. Arrivo in Piazza Vittorio trenta minuti prima del nostro appuntamento, il sole batte ancora su un ultimo angolo di piazza, quello del bar in cui ci incontreremo. Mi godo il privilegio di essere in anticipo. Riporto in bella le domande che ho abbozzato, ordino mezzo litro d’acqua con due bicchieri, spengo il telefono e mi guardo attorno. Le cameriere allontanano i piccioni con una pistola ad acqua colorata, dal getto potente. I lavori di via Po risuonano per tutti i portici, fino a questo dehor fronte piazza. Una signora sola legge, mentre sorseggia un bicerin. I tavoli accanto terminano il pranzo e con un gesto inequivocabile ordinano caffè e conto. Sono le 14:14, due giovani dai capelli biondi si baciano, diventando una cosa sola.
È ora. Uno, due, tre, prova…
Che cosa significano per lei i termini “privilegio” e “alleanza”?
Dammi del tu, perché altrimenti con il “lei” non sono sicuro che tu stia parlando di me. Ricominciamo.
Cosa significano per te i termini “privilegio” e alleanza”?
Come tante parole, anche il privilegio cambia in base a come lo guardi e ha due accezioni: una positiva ed una negativa. Si usa - negativamente - per indicare o rimproverare il possesso di qualcosa che pare in eccesso, ingiustamente sproporzionato. Può essere anche utilizzato con un significato positivo, come invito alla consapevolezza, a rendersi conto della bellezza che ci accade: “hai il privilegio di vivere in una città sostenibile”, “hai il privilegio di lavorare in un’azienda che rispetta determinati diritti”. Alleanza, invece è un termine che ha un’accezione solo positiva. Alleanza significa riuscire a mettere a fattor comune tempo, valori e obiettivi - anche pochi - in nome della possibilità di fare insieme qualcosa di migliore di quello che potrebbero fare tante singolarità separatamente. Alleanza è mettere a fattore comune le energie.
La dicotomia del termine “privilegio” è presente anche negli Stati Uniti, dove hai vissuto e lavorato tanti anni?
In America ne ho sempre visto prevalere l’aspetto negativo. Vivendo in Europa si fatica a comprendere davvero l’importanza delle reti sociali, forse le diamo per scontate. Quando negli Stati Uniti ho visto la crisi, quella cominciata nel 2008 con il crollo di Lehman Brothers, ho visto decine e decine di persone perdere la casa. Ho visto famiglie che vivevano in un’automobile e dormivano nel parcheggio della piscina comunale, perché alla mattina potevano fare la doccia per andare a lavorare: avevano perso la casa, ma non il lavoro. Quando da noi è arrivata la crisi, c’è stato sì un impoverimento sociale, ma non avere più casa o accesso alla sanità è estremamente raro. Negli Stati Uniti invece si può perdere completamente non solo la casa, ma anche le cure… Io ho vissuto a New York, una città emblematica da questo punto di vista: a Manhattan, sullo stesso metro quadrato, dove vedi un homeless che dorme per strada, alzando gli occhi da terra, vedi attici lussuosi nei grattacieli. Li esiste ed insiste, nello stesso punto, un privilegio assoluto e, appunto, un’assoluta mancanza di privilegio.
Dai tuoi libri emerge il privilegio anche da contesti apparentemente pieni di discriminazione, sfortuna, assenza. C’è una delle tue storie che ti sembra emblematica per raccontare questa capacità di vedere oltre, questo contrasto?
Nei miei libri tutte le storie hanno risvolti positivi, ma quella di Alì mi sembra particolarmente esemplare. A Torino vive un sarto, Abdullah Khaliqi, detto Alì, di cui ho parlato nel libro Una volta sola. Alì durante il suo viaggio dall’Afghanistan all’Italia, ha avuto il privilegio di incontrare persone che gli hanno sempre teso la mano nei momenti di difficoltà, evitando che cadesse. E in un certo senso queste persone, quando c’è stato bisogno, hanno fatto squadra e gli hanno permesso, per esempio, di raccogliere i soldi necessari ad affittare un negozio e iniziare la sua nuova vita in Italia. Quando penso ad Ali vedo chiaramente come “privilegio” possa significare semplicemente avere la possibilità di incontrare persone che ti vedono.
Nel tuo libro “Spingendo la notte più in là” ho visto nascere alleanze tra tante famiglie di vittime del terrorismo che prima di questo libro erano sconnesse. Hai anche tu questa percezione?
Diciamo così, ho fatto delle cose che hanno creato delle possibilità: nel caso delle vittime del terrorismo ho contruibuito a toglierle dall’ombra. Mentre prima erano tutte invisibili, dopo il libro sono tornate alla luce e questo ha creato un filo che in qualche modo le unisce. Non è che poi io abbia costruito proprio delle alleanze, però dei fili sì, ragnatele di persone che possono avere un comune sentire. Io credo che non sia sempre necessario strutturare delle cose, come le alleanze. Quando strutturi una cosa spesso subentra la burocrazia, l’organizzazione, le responsabilità, la governance, ecc. Invece spesso tenere le cose al livello di un “sentire comune”, uno scambio, può creare un’alleanza anche se non è formalizzata. Ti faccio un esempio. Sul giornalismo e i podcast. Nella realtà dei podcast, chiamiamola del “nuovo giornalismo digitale” ci sono tante realtà: Il Post, Fanpage, Chora, Will, l’Internazionale, Storie Libere etc. Ecco, tra noi non c’è nessuna alleanza formale anzi, ci facciamo anche concorrenza, però ci sono dei profili comuni e c’è uno scambio. Al festival de Il post quelli di Chora sono regolarmente invitati e viceversa, se c’è da andare in televisione a sostenere Fanpage io l’ho fatto più di una volta, oppure con Internazionale facciamo dei progetti assieme. Non c’è conflitto, ma cooperazione, una dimensione diversa dal mondo dell’informazione tradizionale.
Da cosa deriva questa collaborazione?
Deriva dal fatto che una certa muscolarità della concorrenza, molto novecentesca, oggi è un po’ tramontata, grazie al cielo. Le nuove realtà sono di solito più aperte, più collaborative. Se hai al tuo interno una serie di valori comuni come il rispetto della diversità, l’uguaglianza di genere, non hai gap negli stipendi, questa comunanza culturale crea realtà meno aggressive, meno incattivite, più abituate al dialogo, all’ascolto. Gli obiettivi comuni tra noi non sono mai stati formalizzati, ma ci sono e sono quelli di provare nuovi modelli di informazione sostenibile all’interno della crisi dell’informazione, senza doppi fini, senza escamotage.
Ti senti una persona privilegiata?
Sì. Mi sento privilegiato perché ho un lavoro, anche se me lo sono costruito e inventato io. Ho un lavoro che mi fa vivere bene e che mi piace, ho il privilegio di fare quello che piace a me, ovvero andare in giro e incontrare persone, parlare con loro. Ho il privilegio di aver imparato a raccontare, a comunicare, a scrivere e questo è un privilegio. Non è scontato e penso sia importante riconoscere i propri talenti come dei doni. Io lo riconosco e questo mi crea una voglia di restituzione, di donare a mia volta. Posso donare in molti modi, anche semplicemente avendo pazienza, dando ascolto. Mi capita di pensare di avere molta più pazienza di quella che dovrebbe essere data, ma poi una voce nella mia testa dice “vabbè Mario dai c’hai la fortuna di avere dei privilegi, sii paziente, sii disponibile”.
Da grandi privilegi derivano grandi responsabilità, parafrasando l’Uomo Ragno. Come vivi il tuo privilegio e la tua responsabilità di essere giornalista e papà, soprattutto di due ragazze, in un mondo ancora troppo patriarcale?
Io ho tre fratelli maschi. Noi siamo quattro fratelli maschi. Io ho avuto due figlie femmine. E questa cosa è stata veramente una benedizione. A me piace molto confrontarmi con l’universo femminile, scoprirne le dinamiche, guardare il mondo da un altro punto di vista.
Probabilmente questo ha anche influito consciamente e inconsciamente su molte mie scelte.Sono stato il direttore del primo giornale che all’elezione di Virginia Raggi e di Chiara Pendino a Torino le ha chiamate “sindaca”, “sindache”. Cosa che all’inizio mi attirò anche una serie di critiche feroci da parte del pubblico. “Ma cosa fa? Si dice la sindaco, non la sindaca.” Non fu una scelta presa alla leggera, chiesi un parere all’Accademia della Crusca che mi disse “va benissimo sindaca”. L’ho voluto fare perché non volevo che fosse un gesto semplicemente simbolico, volevo che potesse diventare una prassi radicata. La società evolve ed evolverà, ma quel passo che hai fatto è lì, è a disposizione e rimane disponibile. Questo episodio unisce due privilegi e due responsabilità: il privilegio di poter essere direttore di un giornale e anche di essere un padre, cerco di portare avanti entrambi in maniera responsabile.
A proposito delle tue figlie, come insegni o hai insegnato loro a riconoscere il privilegio e a creare alleanze?
Mi stupisce riconoscere che hanno molto chiaro il loro privilegio: il privilegio di avere dei genitori che le hanno potute aiutare nello studio, che gli consigliano cosa leggere, gli danno la possibilità di viaggiare, di avere la libertà di scegliere dove andare a studiare… Lo sentono e questo fa sì che siano due ragazze molto gentili, molto disponibili, mai arroganti - avrei sofferto molto se avessi avuto delle figlie arroganti. Forse gli ho insegnato io a non esserlo, o loro hanno imparato a vedere in me questa gentilezza, questa disponibilità, e l’hanno interiorizzata. Qualche anno fa, avranno avuto 10 anni, eravamo su un’isola greca. Era mattina e dalla finestra, in lontananza, abbiamo visto un barcone stracolmo di persone. Ci siamo detti “che strano, quanta gente c’è su quel gommone”, non si vedeva bene finché non è stato più vicino e abbiamo intravisto i gilet salvagente. In 25, su un gommone così piccolo: non potevano che essere profughi. Dalla Siria per la precisione. A quel punto sono sceso e loro sono venute con me ed immediatamente hanno iniziato a prendere i loro pacchi, mi hanno chiesto dei soldi per andare a comprare l’acqua, sono tornate con i sacchetti pieni e hanno distribuito una bottiglietta ad ognuna delle persone.
E poi, visto che parlano bene in inglese da quando sono bambine, si sono messe a tradurre e spiegare alle persone accorse cosa dovevano fare anche loro. Questa scena mi ha colpito perché io non gli ho detto cosa dovevano fare, ma ho visto in questa occasione la loro predisposizione naturale alla disponibilità. Non è un peccato avere dei privilegi essendone consapevoli e se sono dei doni, usarli per vedere ciò che accade. Per vedere le persone. I problemi. La società troppo spesso evita di vedere, evita il problema non guardandolo, gira gli occhi dall’altra parte, non dice. Mia madre è una finanziatrice di un numero infinito di persone bisognose, dà la mano a tutte le persone che incontra per strada, al punto che quando camminiamo insieme si ferma ogni due minuti per cinque minuti a parlare con chiunque e arriviamo sempre in ritardo.
Alle mie figlie dice sempre “se non hai soldi da dare a chi te li chiede, diglielo con il sorriso, guardalo o guardala in volto e diglielo che oggi non hai soldi, che sei dispiaciuta, fallo con un sorriso.”
Ed è con un sorriso che ci salutiamo anche noi, mentre il cielo si fa più cupo e il freddo intorpidisce le mani. Lo stesso sorriso che abbiamo regalato a un artista di strada vestito da pagliaccio, che è venuto a chiedere un contributo per la sua performance. Lo stesso sorriso che ha ricevuto, insieme a 10€, Samir, che con la sua bancarella itinerante “eco-solidale” è venuto a vendere direttamente al Direttore - così l’ha chiamato - un bel cappellino, all’inizio di quest’intervista. Perché le vocali hanno un peso, il linguaggio è veicolo di evoluzione e l’informazione salverà il mondo, ma l’esempio, quello conterà sempre più delle parole.
Grazie Mario.