PERCHÉ IL D&I NON BASTA

08 Mar 2021

A cura della Redazione

Cominciai a lavorare come recruiter quando avevo 24 anni, era un martedì di settembre a Barcellona, pioveva. Il mio tutor “senior” (di 25 anni), aperto un programma a me sconosciuto sul monitor, si voltò e mi disse: “bene, comincia”. L’interfaccia diceva: 488 CVs to review.
Progressivamente, da quel primo giorno passato visionando curricula, si è subito formata in me la coscienza delle implicazioni etiche, morali e dell’importanza sociale di quello che - ingenuamente - stavo imparando a fare.
Un singolo click, una chiamata, un messaggio su Linkedin, e le vite dei miei interlocutori sarebbero potute cambiare per sempre. Facevo parte di un grande team con più di 100 ragazze e ragazzi freschi di master ma con esperienza pressappoco inesistente.

Avanti veloce 6 anni, quando ricevo una chiamata da un caro amico.“Valerio, puoi aiutare mia sorella Antonia? Da quando ha finito il master non riesce a trovare lavoro. Ha fatto vari colloqui ma non la richiamano mai”. Antonia, la sorella di José, è una ragazza transgender di 26 anni. Solare, capelli lunghi mossi, molto più alta di me e con gran sorriso a 32 denti. Rispondendo a José, che mi interrogava sul futuro lavorativo della sorella, non ho potuto fare a meno di guardare in faccia la realtà della mia esperienza professionale: oltre 1600 colloqui, centinaia di persone assunte, nessuna persona transgender valutata. Ho lavorato con centinaia di colleghi, e non ho mai avuto il piacere di conoscerne uno appartenente alla comunità transgender.

Approfondendo l’argomento con altri colleghi, abbiamo scoperto che il 77% delle donne transgender soffre gravi discriminazioni nella ricerca di lavoro. Dopo esserci confrontati con alcune organizzazioni di settore, possiamo ipotizzare che in Spagna la percentuale di disoccupazione nella comunità transgender si aggiri intorno al 70%, anche se non sono disponibili dati accurati e ufficiali al riguardo.
Mentre la discussione sulla Diversità e l’Inclusione comincia a farsi piede anche nel sud Europa, cominciamo a chiederci: com’è possibile? Siamo dei mostri? Dovremmo defenestrare la maggior parte dei recruiters? E io, che responsabilità ho?

Valerio Rossi

Senza inclusione, non può esserci diversità
Possiamo rispondere a queste domande su due livelli. Il primo, più conosciuto e fortunatamente oggi in auge, è quello del D&I in azienda, vale a dire le policy, i training, la trasformazione culturale dell’organizzazione e le responsabilità individuali che pongono le basi per aziende inclusive e diverse.
L’altro livello, altrettanto complesso ma meno discusso, è il problema che sta a monte, ovvero quello dell’inclusione sociale. Organizzazioni di settore ci confermano che il problema principale risiede nell’esclusione sociale generata da decenni di abusi e discriminazioni; dal rifiuto culturale, ideologico e infine dal calpestamento dei diritti di base degli esseri umani transgender - talvolta perpetrato anche dalle loro stesse famiglie.
Tutto questo porta a una situazione di segregazione culturale e di esclusione sociale che, purtroppo, non può essere risolta esclusivamente con politiche di D&I interne all’azienda.
Se da una parte formare, sensibilizzare e implementare politiche di D&I è una conditio-sine-qua-non per l’inclusione lavorativa, la realtà è che non è sufficiente.

Un mondo che cambia, un’opportunità unica
Gli sforzi di D&I aziendale non bastano da soli, perché anche se tutti i recruiters (e gli hiring managers) fossero formati e responsabili a sufficienza- ci scontreremo comunque con un altro problema, più strutturale.
Decenni di discriminazione hanno portato all’esclusione lavorativa e quindi alla mancanza di percorsi formativi e lavorativi idonei, soprattutto nelle persone che oggi sono già adulte - talvolta costrette a svolgere attività illegali o lavori lontani dal mondo corporativo.
È per questo che anche quando ci sforziamo di attrarre talento “diverso”, spesso non riusciamo a trovarlo. E, in misura distinta, questo è vero anche per altre comunità:
Non importa quanto ci sforziamo di trovare donne STEM se non risolviamo il problema culturale che c’è a monte (ovvero far capire che fare l’ingegnere non è un lavoro da uomo, e cambiare un sistema educativo spesso maschilista alla base)
Non importa quanto disperatamente cerchiamo un manager di origini africane se non risolviamo il problema di integrazione sociale, culturale e formativa.
Certo, già oggi possiamo trovare queste risorse, ma continuerà a essere un’eccezione, e non la regola come dovrebbe essere.
Fortunatamente, ci troviamo in un momento storico dove tutto sta cambiando, e si aprono porte che prima sembravano blindate.
Il 65% dei lavoratori in ambito tecnologico non ha un’educazione formale. Aziende enormi come Google, IBM, Netflix e migliaia di altre non richiedono un percorso universitario convenzionale per entrare in azienda e crescere in posizioni manageriali.
Percorsi di Resklling e formazione avanzata stanno trasformando il mercato del lavoro e accelereranno il processo di inclusione.
E questo non vale solo per gli adulti della comunità transgender, ma per tante categorie che si trovano escluse dopo decenni di segregazione sociale.
Il World Economic Forum ci dice che il lasso di vita di una competenza è di 2,4 anni. Questo significa che più di un miliardo di persone dovranno reinventarsi e fare reskilling entro il 2030. Probabilmente anche chi vi scrive sarà tra questi. O magari tu.

Ora sta a noi
Oggi Antonia lavora come Account Manager in una delle principali Start up europee. Non ha avuto bisogno di Reskilling perché fresca di studi e intraprendente. È bastato facilitare il contatto con un’azienda innovativa, ora sta facendo carriera ed è tra i migliori del suo gruppo di lavoro..
Ma per molti non è stato e non sarà semplice. Quando formiamo i nostri recruiters - e soprattutto, i nostri hiring managers - dobbiamo insegnare ad andare oltre il CV, oltre quel master all’università prestigiosa e accettare che le competenze, le skill sono sì importanti, ma si possono apprendere in tanti modi diversi. Accettiamo percorsi non convenzionali, implementiamo KPIs di D&I che vanno oltre la parità di genere.
Ed è anche partendo da queste esperienze che abbiamo fondato Workfully, per dare alle aziende strumenti reali per agire e trarre vantaggi dall’inclusione, perché non è solo un dovere, è un’opportunità.

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