Intervista a Pegah Moshir Pour
Pegah Moshir Pour è nata a Teheran, in Iran, nel 1990 e lì ha vissuto fino all'età di nove anni, frequentando la scuola e imparando perciò a leggere e a scrivere a destra verso sinistra.
Nel 1999 la sua famiglia si è trasferita in Italia, dove ha iniziato la quarta elementare praticamente senza sapere nulla della lingua e della cultura italiana. - Ancora oggi mi chiedo come ho fatto! - Prosegue gli studi frequentando il liceo linguistico, poi si iscrive alla facoltà di ingegneria edile e si imbatte nei primi stereotipi, tutti italiani, sulla questione di genere. - Ho notato che le ragazze non venivano in alcun modo incoraggiate a intraprendere lauree in materie STEM quando arrivavano da studi classici, ad esempio, o da indirizzi umanistici in generale. Ma in realtà io ho concluso il mio percorso e ho addirittura scoperto che è un bene avere formazioni differenti.
Tornando al vostro arrivo in Italia: come sono andati i primi tempi?
Inizialmente ho incontrato tanti stereotipi, avevo otto anni e ricordo che i compagni di classe mi domandavano quanti cammelli possedeva mio padre in Iran, se ero capace di mangiare con le posate… e da allora ho iniziato a rispondere a tutto, a contraddire, cercando di raccontare meglio ciò che la gente non sa o dà per scontato. Il momento esatto in cui sono “diventata attivista” è stato quando, all’età di quindici anni, mi è stata negata la possibilità di andare in gita scolastica. La meta era l’Inghilterra ma io non avevo il passaporto italiano; in quel momento ho sentito che non ero davvero parte della comunità italiana, che l’Italia non era proprio casa mia: è stato uno shock, per me e per tutta la classe.
A 15 anni inizi a essere consapevole e cosciente della tua esistenza... così ho cominciato a pormi domande su come funzionasse la politica in Italia, su quali diritti mi fossero accessibili e quali negati; l’episodio della gita mi ha fatto sospettare che ci potessero essere state altre occasioni - che i miei genitori non mi avevano fatto pesare – in cui ero stata esclusa o discriminata.
Durante l’università sono diventata rappresentante degli studenti al senato accademico prima e al consiglio di amministrazione poi, ho portato avanti varie associazioni culturali e ho fondato il primo collettivo universitario si occupa di violenza di genere. Dalla violenza di genere sono passata a interessarmi di diritti digitali, tema molto ampio con grande necessità di tutele e trasparenza. Infine, è scoppiata la rivoluzione in Iran.
Settembre 2022. Ti ha subito travolta?
No, in realtà ho aspettato un po’ ad attivarmi, avevo bisogno di capire se queste manifestazioni fossero come quelle passate. Ma no, sono totalmente diverse. Eppure, attorno all’Iran resta tanta disinformazione, molti lo confondono con gli altri Paesi arabi invece non è un paese islamico, ha una sua storia, una sua geopolitica, una lingua totalmente diversa... Così – prima ancora che cronaca - ho iniziato a fare informazione.
Qual' è una delle informazioni più importanti che ci tieni a condividere?
Che è sciocco rinchiudere le persone in una determinata nazionalità. Abitiamo tutt* il pianeta Terra, la nostra cittadinanza è mondiale. Se parliamo ad esempio di diritti umani, o di diritti digitali, tutt* ne devono beneficiare. Io mi sento italiana, mi sento iraniana, e mi sento anche scozzese, ed europea... cioè, ogni posto per me è casa. I confini politici sono stati posti dall’Uomo e portano ad avere limiti verso il nuovo, verso le persone, verso le religioni... Pensa all’Islam. La questione del velo è stata strumentalizzata, il suo utilizzo obbligatorio non è previsto dalla religione, indossare il velo è una libera scelta. Quando diventa un’imposizione è un’azione puramente politica, si trasforma in oppressione per chi vive lì e in islamofobia per chi vive in Occidente. E questo fa male da entrambe le parti.
Com’è ora la situazione in Iran?
Da una parte c’è grande speranza, l’Iran è un Paese enorme con tantissime etnie, culture, lingue. È forse la prima volta che vediamo il Paese unito, anche le provincie più lontane (Khorasan, Sistan e Baluchistan) e i territori dove si raccolgono le minoranze etniche - storicamente più discriminate. Addirittura, lo slogan donna vita libertà viene dalla fine del ventesimo secolo dalle donne della resistenza curda. Questa rivoluzione è collettiva, si sono alleate le generazioni per rovesciare un regime in cui non si riconoscono più; religiosi e laici protestano insieme, una delle attiviste più note a favore della scissione tra potere politico e potere religioso è una donna che indossa il velo. Il binomio Repubblica-Islamica non è più sostenibile. L’accanimento verso le donne, verso ragazze e bambine delle scuole elementari medie e superiori (vengono lanciati gas tossici nei cortili degli istituti) si spiega perché sono proprio le donne il motore di questa rivoluzione.
Per 44 anni piccole rivolte sono state alimentate e spente. Ora la pentola a pressione è scoppiata, le persone non hanno più paura ma maggiore consapevolezza che porta ad un’unione mai vista. Questo regime che non rappresenta nessuno se non una piccola nicchia di privilegiati che resiste grazie alla forza economica che ha.
C’è un linguaggio diverso in questa rivoluzione?
È la prima volta che le cose vengono chiamate con il proprio nome, gli slogan sono chiarissimi, dicono a morte il dittatore, fanno nomi e cognomi e la disobbedienza è collettiva.
Quando dici che l’Iran non è un Paese arabo cosa intendi?
L’Iran eredita dall’Impero persiano lingua, cultura e tradizioni; tuttora le nostre festività sono legate allo zoroastrismo, ancora oggi ci sono templi zoroastriani e credenti (perseguitati dal regime, così come i musulmani sunniti e molti altri credo). È il momento giusto per rivendicare le proprie identità. Ci sono tantissimi ragazzi e ragazze che si recano a Persepoli - dove sorge il tempio di Ciro II di Persia - per onorarne la memoria, per ribadire che quella è la loro cultura e non si riconoscono nell’Islam né tantomeno nell’Isis. La strumentalizzazione della religione dovrebbe far arrabbiare i religiosi stessi perché questo regime fascista e razzista usa la religione in nome di qualcosa che non esiste. Perché non si indignano?
E la situazione non migliora, mi pare.
Gli arresti non si fermano, le restrizioni non si fermano, ma anche le proteste non si fermano e “i ragazzi” non torneranno indietro. Vogliono la liberazione.
Che futuro vedi per l’Iran?
Una Repubblica democratica, generazioni ed etnie unite sotto un unico slogan donna vita libertà e questo andrà a beneficio di tutti i Paesi del mondo in termini di stabilità, prosperità e pace.
Ad oggi il regime alimenta i conflitti in altri Paesi e questo deve finire.
L’Iran potrebbe essere il primo Paese democratico del Medio Oriente?
Certo! Pensa che cambiamento nella geopolitica internazionale. Mi auguro che i governi occidentali se ne rendano conto, che lo vogliano davvero e facciano tutto perché questo possa accadere. Presto.