
OLTRE IL TABÙ - Verso la cultura della disabilità - Elena Belloni intervista Elisa De Luca
Ho conosciuto Elisa De Luca diversi anni fa in occasione di un classico colloquio di lavoro, l’avevo contattata per una posizione in ambito marketing e comunicazione, settore nel quale Elisa è professionista affermata. In questi anni siamo sempre rimaste in contatto tramite i social scambiando opinioni e trovandoci spesso d’accordo su temi legati in particolar modo alle difficoltà riscontrate dalle persone con disabilità nella ricerca del lavoro. Abbiamo quindi pensato fosse arrivato il momento di condividere le nostre “chiacchiere” virtuali mettendole nero su bianco.
Perché parlare di disabilità è ancora un tabù?
Credo che dipenda dal fatto che il tema della disabilità è affrontato da due prospettive, forse neanche tanto diverse, a ben guardare. Le persone con disabilità sono viste o come “poveretti” da aiutare e assistere (evidentemente, perché “incapaci” di farcela da soli) o come “eroi” a cui ispirarsi e da imitare. Difficilmente ci si ferma a pensare che la disabilità è solo una delle caratteristiche della persona, un po’ come il colore dei capelli, l’altezza. Una caratteristica importante, certo, ma che non definisce, di per sé, la totalità della persona che ne è portatrice.
Quali sono le parole adatte per affrontare questo tema? Qual è la terminologia corretta?
Come dicevo, credo che il modo migliore per parlare di disabilità e di chi ne è portatore sia partire, per l’appunto, dalle persone. Sento spesso alcuni autodefinirsi “disabili” con un sostantivo, quasi che la disabilità conferisse loro uno status diverso rispetto alle persone “normali”. Per quanto mi riguarda, invece, preferisco definirmi “persona (nello specifico, donna) con disabilità”. Sembra una differenza di poco conto, ma non lo è: sono molte altre cose, oltre alla disabilità con la quale convivo. Perché dovrei negare io stessa quest’evidenza? Secondo me, un buon punto di partenza sarebbe parlare delle persone, prima che delle loro disabilità.
Esiste una cultura della disabilità?
Sì, esiste, anche se fa fatica ad affermarsi. È vero che, negli ultimi anni, si parla di più di disabilità, si vedono persone con disabilità anche evidenti in tv, nella pubblicità, sulle passerelle dell’alta moda. Ma una vera cultura della disabilità, secondo me, si affermerà solo quando ci renderemo tutti conto che chi ha una disabilità (non: “è” un disabile) è, innanzitutto, una persona, esattamente come chiunque altro. Con esigenze, desideri, aspirazioni, ambizioni in ogni ambito totalmente legittimi. Ovviamente, ai diritti corrispondono altrettanti doveri e responsabilità, che chi ha una disabilità dev’essere pronto ad assumersi. Ma perché partire dal presupposto che non sia (o non possa essere) così?
Rispetto alla tua esperienza personale, che tipo di difficoltà hai incontrato nel tuo percorso di vita?
Pur essendo nata in un piccolo centro della Sicilia, ho avuto la fortuna di avere due genitori che non mi hanno mai fatta sentire “diversa” rispetto ai miei fratelli: nonostante fossi la più piccola e nonostante i problemi motori legati alla mia disabilità, ho avuto sempre gli stessi diritti e doveri che avevano loro, in casa e fuori. Non li ringrazierò mai abbastanza per aver creduto in me fino in fondo. Purtroppo, non sempre ho trovato la stessa apertura al di fuori delle mura domestiche. Quando mi accingevo ad iniziare a frequentare la scuola elementare, i miei dovettero lottare per non farmi finire in una classe “ghetto” (anche se, formalmente, le famigerate “classi speciali” erano state abolite da anni), riuscendo a dimostrare che al mio handicap motorio non corrispondevano difficoltà né cognitive né sociali. Non è sempre facile neanche rapportarmi con gli altri, perché, spesso, i pregiudizi (anche in buona fede) rispetto alla mia disabilità portano alcune persone ad allontanarsi, per paura di doversi far carico di un “peso” o di dover rinunciare a qualcosa per via delle mie limitazioni fisiche. Sono una persona molto autonoma ed orgogliosa, per cui ho reagito sviluppando una sorta di “difesa preventiva”, quando entro in contatto con gente appena conosciuta. Ma, se mi rendo conto che, davanti a me, c’è qualcuno che non si chiude, sono ben lieta di aprirmi a mia volta. D’altronde, non è un caso che abbia scelto di lavorare nell’ambito del marketing e della comunicazione, no?
E in quello lavorativo, che ruolo/peso ha avuto la tua disabilità?
Non nego che, sul lavoro, mi è capitato in varie occasioni di sentirmi più o meno apertamente discriminata a causa della disabilità. Mi sono state negate in più occasioni opportunità di carriera, non per lacune legate alle mie competenze ed esperienze, ma per “venirmi incontro” (in che senso, non l’ho mai capito) o, come mi è stato detto anni fa a margine del colloquio per un ruolo di responsabilità in una grande azienda, perché “la disabilità non la renderebbe un capo autorevole” (ah no?). Per fortuna, grazie alle mie competenze e al mio carattere, sono riuscita comunque a costruirmi un percorso professionale di tutto rispetto, non sempre comune a chi ha una disabilità. Ho avuto anche la fortuna d’incontrare persone molto diverse, rispetto a quelle di cui parlavo prima, che vedono in me la professionista, prima che la “categoria protetta” (espressione, questa, che, personalmente, detesto).
Quali consigli daresti a chi deve sostenere un colloquio di lavoro candidandosi per posizioni legate alla L.68/99?
Candidarsi per una posizione riservata alle “categorie protette” non è diverso rispetto al farlo per le altre. In entrambi i casi, a parer mio, deve emergere innanzitutto la professionalità del candidato, le motivazioni per le quali è la persona giusta per ricoprire un determinato ruolo e l’apporto che potrebbe dare alla crescita dell’azienda se venisse assunto. Il resto, ovviamente, può essere discusso, nel rispetto della privacy, soprattutto nel caso in cui siano necessari accorgimenti particolari per consentire alla persona di svolgere la propria mansione o se si hanno esigenze specifiche (ad esempio, terapie ricorrenti a cui ci si dovrà sottoporre durante l’orario di lavoro). Non vedo, però, ragioni per pensare al colloquio per quel tipo di posizioni come a qualcosa di diverso rispetto allo standard. In fondo, siamo tutti persone, no? Mi piace, a tale proposito, citare la dichiarazione del coach della Nazionale Italiana di Basket Femminile, Marco Crespi, che, a chi gli chiede quali differenze vi siano tra l’allenare le donne e gli uomini, risponde sempre: “Nessuna. In entrambi i casi, si tratta di allenare dodici persone diverse tra loro, indipendentemente dal sesso”. Ecco: mi piacerebbe che questo fosse l’approccio anche verso i candidati con disabilità. E mi piacerebbe che fossero i candidati per primi a pensarsi così, non come “zavorrati” da qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi, né, men che meno, come “meritevoli a prescindere”, perché le cose bisogna guadagnarsele, sempre e comunque, a mio modo di vedere. Insomma, sintetizzandolo, il mio consiglio è di prepararsi sul ruolo specifico e sull’azienda nella quale si dovrebbe lavorare, documentandosi e tenendo pronte domande che sottolineino l’interesse per la posizione in questione. Senza dimenticare di prepararsi a rispondere anche ad eventuali domande “scomode” sul tema disabilità, a patto che non siano il centro della discussione, cosa che, purtroppo, accade ancora troppo spesso, soprattutto per posizioni meno qualificate.
A tuo parere, come si favorisce l’inclusione in azienda e che ruolo dobbiamo avere noi selezionatori?
Coinvolgendo tutti, direi. Vale a dire creando un contesto che sia pensato per essere fruibile da tutti, non solo da una parte della collettività. L’accessibilità va a braccetto con la cultura della disabilità di cui parlavo prima. Accessibilità intesa non solo come progettazione di spazi privi di barriere architettoniche, ma anche culturale. Perché, spesso (soprattutto
nel caso di disabilità come quelle psichiche e cognitive), più che gli ostacoli fisici pesano le barriere culturali, che impediscono di entrare pienamente in contatto con gli altri. Nei giorni scorsi, ho letto un articolo molto interessante proprio sul tema disabilità e lavoro. L’autore, che convive lui stesso con una disabilità motoria, diceva proprio che bisognerebbe superare il concetto di “categoria protetta”: il lavoratore che ha una disabilità non è uno “svantaggiato” da accogliere in azienda per evitare le sanzioni o per spirito di carità cristiana. Il lavoratore con disabilità è, innanzitutto, un lavoratore, esattamente come gli altri. Non tutte le disabilità sono uguali, così come la percentuale d’invalidità, di per sé, non dice tutto su quello che la persona in questione può fare all’interno di un’azienda. Ben vengano i disability manager, ma credo che, in primo luogo, bisognerebbe diffondere nelle aziende, a partire dai dipartimenti HR per estenderla a tutte le funzioni, l’idea secondo la quale l’ inclusione non si può realizzare se non guardando, in primo luogo, alla persona e alla sua professionalità, prima che alle sue caratteristiche. Ovviamente, è necessario che anche le persone con disabilità si rendano sempre più conto che un lavoro non è solo un “posto” che spetta per legge, ma comporta responsabilità e doveri. Certo, è giusto e necessario conciliare l’attività lavorativa con le esigenze di cura e riposo, se necessario. Ma il pregiudizio secondo il quale “le categorie protette sono sempre in malattia” da qualche parte è pur nato, no? Sta a noi sfatarlo, coi fatti.
So che gestisci un blog, ce ne vuoi parlare?
Move@bility non è esattamente un blog. Mi piace definirlo, piuttosto, un sito informativo, che ho creato ormai tre anni fa per raccogliervi informazioni utili alle persone con disabilità negli ambiti più disparati: lavoro, viaggi, tempo libero, accessibilità. Vorrei che fosse uno spazio di confronto e incontro non solo per chi ha una disabilità, ma per tutti. Perché, come dice il “motto” del sito, solo così si può costruire un mondo a misura di tutti, non solo di una parte.
Se dovessi definire la diversità con immagine quale utilizzeresti?
Sicuramente un arcobaleno!
