OLIVETTI OLTRE LE GENERAZIONI

02 Ott 2021

Note a margine a centovent’anni dalla nascita

di Gianluca Cabula

“Se non ritieni necessario e urgente come ritengo io spingere l’officina verso il maggior incremento possibile, mi pare l’officina possa benissimo andare avanti col signor Burzio e non ha nessun bisogno della mia occupazione [...]. In caso contrario preferirei non perdere una settimana di più.” 

È la fine del 1925 e un irruento Adriano Olivetti scrive così da Detroit al papà Camillo, nel corso del suo “grand tour” dell’industria americana. Il bersaglio polemico è il “signor Burzio”, l’artigiano fucinatore formato dallo stesso Camillo, operaio della prima ora assurto poi a direttore tecnico. Ma, agli occhi del ventiquattrenne Adriano, Burzio è l’uomo del passato, il referto di una vecchia maniera di agire “accentratrice ed eliminatrice”, il simbolo di una fabbrica magari geniale ma ancora tutta empirica, lontana da quei dettami di scientific management che già informavano il fordismo americano e che folgorarono il giovane ingegnere di Ivrea. 

In questo numero di Divercity parliamo di “generazioni” e proprio la Olivetti racconta la storia di un’azienda nata dall’incontro schietto e fecondo tra un padre e un figlio. 

Se dovessimo far parlare le architetture di Ivrea, recentemente promosse a sito Unesco, è quantomeno emblematico che la vecchia fabbrica di mattoni rossi, fondata nel 1908 da papà Camillo, negli anni dell’ascesa non venga abbattuta bensì estesa e collegata con un passaggio alla nuova azienda. 

Allo stesso modo, Adriano mantenne il nucleo centrale del pensiero paterno: l’ideale di una fabbrica a misura d’uomo, ispirata a quell’idea di solidarietà sociale che Camillo nutriva e anche praticava, se è vero che spedì il figlio adolescente in un reparto di trapani, perché sperimentasse “il nero di un lunedì nella vita di un’operaio”. Adriano capì, però, che questo paternalismo doveva evolvere in un nuovo umanesimo, che l’uomo che vive nell’officina “non sigilla la sua umanità nella tuta di lavoro”, che la mansione parcellizzata era sì più efficiente, ma rischiava di tradursi in un vuoto di senso. Occorreva allora guardare alla persona nella sua integrità e, per questo, l’impresa doveva essere pronta a dilatarsi fino ai confini dell’ambizione, con un’offerta smisurata di servizi che ancora oggi sostanzialmente inseguiamo. 

Ma non solo. Tornando alla metafora dell’architettura, l’azienda non doveva isolarsi dietro una cortina di mattoni, ma diventare un diaframma trasparente in osmosi con la società e il paesaggio. Ecco allora ogni volumetria dissolversi in pareti vetrate continue e attraversate dalla luce, a testimonianza di una vita aziendale continuamente sollecitata ad aprirsi a saperi che la sfidavano per novità e alterità: la sociologia, la psicologia, l’urbanistica, l’arte, la letteratura, il nascente ambientalismo. Contro ogni tentazione attuale di azienda-fortezza, mi preme richiamare all’attenzione un altro aspetto, per certi versi rivoluzionario, del pensiero di Adriano. Sappiamo che Olivetti vagheggiò un nuovo ordine costituzionale, un’ardita costruzione di ingegneria politica fondata sul concetto di “comunità” che consegnò a molti suoi scritti. Sorvolando su quanto di caduco o ingenuo esisteva in questo progetto ideale e solitario, mi sembra importante sottolinearne un risvolto. Olivetti osservava che la democrazia della rappresentanza e dei partiti era essenzialmente inadeguata a garantire una pienezza di diritti per l’individuo. Per questo prospettava una democrazia “integrata”, o meglio ancora “compensata” dalla presenza dell’azienda, a cui Olivetti ascriveva da sempre un’intelligenza intrinseca e una superiore razionalità. 

Azienda vista, quindi, non solo come momento della produzione di valore, ma anche come luogo in cui la democrazia si compie, si innerva, si perfeziona. La società della differenza ancora era all’orizzonte - assorbente era il tema della lotta di classe - ma mi pare che quest’idea di responsabilità abbia ancora molto da dire a chi si occupa di diversità e inclusione. 

Olivetti diceva che le fabbriche andavano pensate di notte e realizzate di giorno. 

Dovremmo cercare di farlo anche noi. 

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