
OCCASIONE DA NON PERDERE - L’ eredità del lockdown può essere preziosa. Dimostreremo di aver imparato dal Covid
Sarah Varetto
L’esperienza del periodo di lockdown ci ha permesso di confermare, se ce ne fosse stata la necessità, che la tecnologia è uno strumento formidabile per raggiungere una maggiore inclusione ma allo stesso tempo che la tecnologia in sé non basta a migliorare la qualità della vita e del lavoro senza un’organizzazione che vada oltre la gestione dell’emergenza.
Il concetto di tecno inclusione è stato a lungo dibattuto, anche se può sembrare un paradosso, più in senso opposto, in negativo per intenderci. Parliamo del digital divide, il divario tra chi ha la possibilità di utilizzare gli strumenti digitali (internet in primis) e chi no. Più che l’inclusione, si sono analizzate le esclusioni, in termini economici e culturali, che si possono creare sulla base dell’accesso alla tecnologia.
Il digital divide può essere rappresentato sia nel confronto con gli altri paesi europei, sia all’interno del territorio nazionale, tra le diverse fasce sociali della popolazione (si pensi ad esempio agli anziani) e tra aree geografiche (nord/sud, grandi/piccole città). Se diamo uno sguardo al recente DESI 2020, Digital Economy and Society Index, vediamo che l’Italia occupa il terzultimo posto tra i 28 Stati membri dell’UE. Non è solo una questione di connettività, ma di capitale umano e “digital skills”. Secondo le rilevazioni Istat, un terzo delle famiglie italiane non ha computer o tablet in casa, percentuale che sale al 41,6% nel Mezzogiorno. Solo nel 22,2% delle famiglie ogni componente ha a disposizione un pc o tablet (14,1% nel sud Italia). Questa la situazione dell’Italia che si è trovata ad affrontare l’emergenza coronavirus. E in questo contesto vediamo anche com’era il “lavoro remoto”, che poi abbiamo imparato a conoscere piuttosto bene. Secondo le stime dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2019 erano 570.000 le persone coinvolte in questa modalità di lavoro ed erano per lo più le grandi aziende ad adottarlo (58%). In ogni caso, era in media utilizzato per un giorno alla settimana con resistenze culturali, anche tra i manager. Discussioni e pregiudizi sono stati spazzati via nel giro di un week end. E’ bastata meno di una settimana, quella segnata dal drammatico annuncio di venerdì 21 febbraio con la scoperta del primo positivo italiano al Covid all’ospedale di Codogno.
Si è trattato di un passaggio epocale: circa 7 milioni i lavoratori che hanno iniziato a lavorare da remoto.
Chi meglio è riuscito ad adeguarsi a questo più che mai improvviso cambiamento, ha potuto salvaguardare il proprio business.
La testimonianza che posso portare è quella di Sky, azienda chiaramente a vocazione tecnologica che, grazie ad un approccio particolarmente illuminato del nostro HR, credeva fortemente nello smart working: nel giro di tre giorni l’intera azienda è stata in grado di lavorare da remoto assicurando la continuità dei servizi ai nostri clienti, garantendo la migliore offerta televisiva alle persone che erano obbligate a casa. Sono state messe in campo soluzioni innovative nel “produrre” contenuti, con una modalità di lavoro ibrida tra casa e studi televisivi e uffici, diverse location produttive in onda e regie televisive in cloud. Inclusione e tecnologia sono davvero stati un binomio inscindibile anche nella gestione delle nostre persone, oltre che dei clienti: è stato attivato un servizio di telemedicina, con un medico da remoto 18 ore al giorno 7 giorni su 7, un supporto psicologico disponibile 24 ore al giorno, solo per citare alcune iniziative. Di fatto quello che potrebbe sembrare fredda tecnologia, diventa inclusione.
Ma tutto il mondo sta riflettendo sull’eredità di quei mesi di lockdown.
Per spiegare meglio cito l’espressione utilizzata dall’Economist, che gioca sugli acronimi inglesi BC/AD: “Before Coronavirus” e “After Domestication” per definire un prima e un dopo profondamente trasformato. Un cambiamento così radicale che, in un’interessante analisi, viene messo a confronto con le trasformazioni industriali del diciannovesimo e ventesimo secolo: il passaggio dall’energia tratta dal vapore all’uso dell’elettricità era durato mezzo secolo, ma le precondizioni come il broadband e un’economia basata sui servizi hanno reso possibile questo cambiamento epocale in tempi inimmaginabili a causa di uno shock esogeno come il virus.
Una rivoluzione che ha coinvolto anche le relazioni interpersonali, non solo il modo di svolgere la propria attività professionale da remoto. Sono emersi, inevitabilmente, punti di debolezza, come la necessità di riconquistare il confronto informale, l’incontro casuale, la creatività che può emergere dai legami deboli all’interno degli spazi comuni degli uffici. Una settimana lavorativa che forse non sarà più di cinque giorni in presenza, con orari standard uguali per tutti, con spazi individuali e con ritmi tali da creare spostamenti di massa e relativi intasamenti sui mezzi pubblici e sulle strade. Uno stop che ci ha portato a ripensare la sostenibilità del nostro “vecchio” modello di sviluppo. Giova ricordare che un profondo dibattito sull’insostenibilità dei nostri stili di vita e di lavoro era ampiamente in corso. Il modello “smart” e relativi cambiamenti di spazi e di tempi nella professione hanno reso, però, più labile la barriera tra vita personale e lavorativa. E su questo punto occorre soffermarci per capire se veramente tecnologia e smart working, in questa fase, abbiano favorito davvero l’inclusione.
Il conto più salato, e purtroppo non fa notizia, è stato pagato dalle donne che hanno dovuto reggere il contraccolpo del Covid all’interno della famiglia. Smart working non significa automaticamente conciliazione tra vita familiare e professionale, o pari opportunità tra uomini e donne. Anzi, il rischio è che queste dinamiche possano influire negativamente anche sul mercato del lavoro, caratterizzato da un basso tasso di occupazione femminile. Anche i contratti a termine che sono stati interrotti in seguito alla crisi economica di questi mesi riguardavano soprattutto donne e giovani, mentre il divieto di licenziamenti sta proteggendo maggiormente gli uomini più adulti. Un altro rischio è che le aziende possano, di fronte a questa crisi improvvisa, far calare l’attenzione sui temi D&I giudicandoli, a torto, meno prioritari rispetto ai temi di business più tradizionali. Occorre invece superare questa fase emergenziale cercando di far tesoro di tutte le esperienze, positive e negative, e costruire un’organizzazione realmente sostenibile.
In conclusione, il lockdown ha portato tutti allo stesso livello, ha obbligato (quasi) tutti a lavorare da casa, un’inclusione forzata. Ha fatto superare il pregiudizio secondo il quale chi sta a casa lavora meno. Ha mostrato che la qualità (e la quantità) di lavoro, anzi, aumenta. Ha provocato un’accelerazione nel dotarsi di sistemi informatici sia da parte delle singole persone che delle imprese, soprattutto nelle PMI e nella pubblica amministrazione.
Ha però evidenziato le differenze: tra ragazzi, tra scuole, tra aziende, individui... ha rafforzato il preesistente digital divide. Lo smart working, poi, ha fatto sì che si riscoprisse la dimensione domestica (seppure in termini differenti tra uomini e donne), diminuisse il traffico, lo smog, lo stress, interrompendo le abitudini legate ad un’organizzazione del lavoro ereditata dal secolo scorso. Ma in alcuni casi il work-life balance è stato messo alla prova, di qui la necessità di porre attenzione alle modalità di relazionarsi nella “nuova normalità”.
Tornerà tutto come prima? Probabilmente no, allora meglio cogliere da queste difficoltà le opportunità per migliorare il lavoro, la formazione, i servizi della PA, rendere tutto più inclusivo, dare a tutti gli strumenti - e soprattutto le skills - per potervi accedere. Strumenti che diventano anche elementi essenziali per la partecipazione alla vita democratica.
Forse, è questo il modo migliore per investire i denari europei di cui tanto la politica dibatte. Solo così si riuscirà a fare un passo avanti, per il nostro paese e per la nostra società.