NON SI PUÒ NON COMUNICARE - L’importanza della comunicazione nell’inclusione delle disabilità

03 Dic 2020

Antonia Del Vecchio

La comunicazione umana mi ha sempre affascinata e, quando ho deciso di diventare Psicoterapeuta a indirizzo relazionale, il confronto è stato immediato. Prima di affrontare il tema del “linguaggio inclusivo” è necessario un passaggio sulla comunicazione stessa. Quali sono le caratteristiche della comunicazione umana? Molte riflessioni interessanti su questo tema le troviamo nel lavoro dello psicologo Watzlawick che nel 1971 pubblicò il libro “La pragmatica della comunicazione Umana”. Dopo molti anni di studi, Watzlawick formulò 5 assunti (o assiomi) imprescindibili su cui si basa la comunicazione umana. Sostenne, inoltre, che ogni comunicazione presuppone un impegno ed è questo che definisce una relazione.

In particolare, sono interessanti 3 di questi assiomi, vediamo quali.

1. Non si può non comunicare;

2. In ogni comunicazione vanno distinti due livelli, quello del contenuto, che dice che cosa stai comunicando, e quello della relazione;

4. Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico (verbale) che con quello analogico (non verbale).

Il primo assioma sottolinea che non è possibile non comunicare: qualsiasi nostro comportamento è, in realtà, un modo di comunicare anche se non “diciamo” nulla letteralmente. Ogni nostra scelta comunica qualcosa a noi stessi e agli altri. L’assioma che più si collega con il tema dell’utilizzo e del peso che possono avere le parole è sicuramente il secondo: possiamo dire la stessa cosa, ma urlando o sorridendo cambieremo completamente il significato di quello scambio. Nel lavoro mi sono imbattuta spesso in conversazioni con persone con disabilità che riuscivano a ironizzare sulla propria condizione e a suscitare un sorriso negli interlocutori, superando così il rischio di equivoci o offese. Sappiamo inoltre che quando interagiamo tra noi, è facile cedere all’ influenza dei nostri di sistemi simbolici, convenzionali e di segnalazione secondo la nostra cultura di riferimento (L. M. Anolli). Veniamo al quarto assioma: molti sono consapevoli che esiste un linguaggio verbale e uno non verbale. Ma cosa si intende con “non verbale”? Solitamente il non verbale si associa alla postura, ma è riduttivo limitarsi a questo. Sono importanti la posizione del corpo, i gesti, ma anche l’espressione del viso, l’inflessione della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle parole.

A partire da questi presupposti è possibile fare una riflessione su come ci relazioniamo e sul perché alcune parole hanno un peso diverso in base a come le utilizziamo. Ritengo, inoltre, che non esista un vocabolario preciso, perché in alcuni casi non è nemmeno necessario che vengano pronunciate parole e ugualmente la comunicazione può essere discriminatoria. Tuttavia, di seguito riporto alcune delle parole più diffuse che vengono utilizzate impropriamente: ‘disabili’, ‘invalidi’, ‘handicappati’, ‘paraplegici’, ‘dislessici’, ‘autistici’. Queste definizioni associano la persona unicamente alla condizione di “mancanza” che la caratterizza. In precedenti interventi ho parlato dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) che introduce il modello BioPsicoSociale e che permette una nuova visione della disabilità e della salute. Questo modello “manda in pensione” la vecchia idea della definizione di disabilità secondo cui questa sia definita dalla patologia/diagnosi dell’individuo, sostituendola con una visione olistica della persona. Si pone l’accento sul valore complessivo dell’essere umano, dove la “diagnosi” è solo una parte. Si sente spesso l’espressione “diversamente abili”. L’ ICF ha dimostrato che la disabilità è data dall’interazione e dal livello di partecipazione dell’individuo con l’ambiente. Quindi siamo tutti diversamente abili, in quanto chiunque può trovarsi a sperimentare una situazione che richiede diverse modalità di esecuzione di un compito. Dobbiamo operare uno “switch”. Innanzitutto si potrebbe iniziare a considerare la persona con nome e cognome. Il linguaggio inclusivo parla di persona con disabilità, di lavoratore con disabilità o studente con difficoltà di apprendimento. Il termine “persona” è stato usato dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell’Onu, divenuto standard internazionale. Questo termine è neutro, non ha caratteristiche né positive né negative e ha un significato universale per tutti gli esseri umani. Nonostante l’impegno di lungo corso nella creazione di contesti inclusivi, ancora oggi si tende ad utilizzare un linguaggio obsoleto e, a tratti, offensivo. Ciò accade anche da parte di personalità pubbliche e questo, purtroppo, alimenta una visione ancor più distorta. Questo aspetto è definito molto bene in un famoso passaggio del libro “Parlare civile”: Le parole possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere. Quando si comunica occorre dunque precisione e consapevolezza del significato, del senso delle parole. […] Non è facile, ma è necessario per ‘parlare civile’. (Redattore sociale, 2013, p. VII e VIII).

Come Diversity manager e Psicoterapeuta di Synergie Italia progetto, per i nostri clienti, percorsi finalizzati all’educazione all’inclusione. Mi piace infatti parlare di educazione e di cultura oltre che di sensibilizzazione. Il pregiudizio nasce proprio dall’ignoranza intesa come “non conoscenza” della materia, e spetta a noi addetti ai lavori offrire la chiave giusta, alle aziende, per effettuare questo passaggio evolutivo. L’esperienza che stiamo vivendo a causa della pandemia ha rallentato i nostri ritmi e ha permesso di soffermarsi sull’importanza dell’inclusione delle diversità. Sono infatti aumentate le occasioni di riflessione e di scambio di best practices tra le aziende. La strada è ancora molto lunga ma il mio motto è “Nel regno delle idee tutto dipende dall’entusiasmo… nel mondo reale tutto si basa sulla perseveranza” (Goethe).

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