NEW YORK CITTÀ LIBERA
Il racconto di Stefano Bruzzese, delegato del Tonga alla simulazione ONU.
di Francesca Lai
Sarà alto poco più di 506 metri, avrà novanta piani e sorgerà su un terreno di 1,2 acri al 418 11th Avenue di Manhattan. L’Affirmation Tower, grattacielo proget-tato dallo studio di architettura di David Adjaye, diventerà il simbolo dell’inclusione socioeconomica per la città di New York.
Ancora non esiste, ma agli occhi (dell’immaginazione) di Stefano Bruzzese, 25 anni, dottorando in scienze agrarie, forestali alimentari all’Università di Torino, questo edificio è forse uno dei più innovativi e inclusivi mai esistiti.
Scelto tra più di tremila selezionat* per vestire i panni di codelegato del Tonga alla simulazione ONU, Stefano è rimasto colpito da una città in cui l’inclusione è tra le persone, tra le strade, nei palazzi e nei progetti architettonici.
Affirmation Tower non solo cambierà lo skyline e il paesaggio di New York City, ma sarà un potente motore economi- co per le minoranze e le donne: sarà destinato destinare il 35% della forza lavoro a persone di colore, per un totale di oltre un miliardo di dollari.
Da Collegno, provincia di Torino, a New York. Perché hai deciso di candidarti a questo progetto?
Il mio sogno era poter vedere e camminare nel celebre Pa- lazzo di Vetro. Purtroppo, non è andata così: in quei giorni, all’inizio della guerra in Ucraina, il palazzo era occupato per le sedute – quelle vere – degli stati membri. Per cui la settimana di attività si è svolta al New York Marriott Marquis, un centro congressi nel cuore di Times Square. È stata comunque una bellissima avventura: tre giorni pieni di attività due da turista.
Come ti sei preparato per affrontare le giornate di discussione?
Prima delle tre giornate abbiamo avuto l’opportunità di fare una formazione in cui abbiamo scoperto le fondamenta del sistema ONU: dagli organi, ai meccanismi di decisione, al public speaking.
Chi sono stati i tuoi “vicini di casa” all’ONU? Io ho lavorato nel comitato dell’Unicef insieme ad un code- legato, anche lui di Torino. A fianco a noi c’erano i delegati dell’Australia, delle Seychelles, e il Kiribati, piccolo paese dell’Oceania.
Com’erano organizzate le giornate? Le attività iniziavano alle 9 del mattino fino alle 16 e 30 del pomeriggio. Si lavorava da soli o in gruppo in diverse sessioni, si presentavano mozioni sull’ordine del giorno e si votava. Noi, essendo nel comitato Unicef, avevamo il compito di presentare strategie e strumenti volti all’introduzione di politiche giovanili post pandemia. Ogni sera ho partecipato ad eventi diversi. Il più bello è stato il concerto di Francesco De Gregori al Manhattan Center.
Prova a fare un bilancio della permanenza nella Grande Mela. Cos’hai portato con te in Italia?
È stato bello vedere l’affiatamento di tutti noi giovani. Dopo due anni di pandemia, ragazze e ragazzi da tutto il mondo insieme nel vivere giornate intense e fuori dall’ordinario. Si è sentito molto questo calore: non lo dimenticherò mai. Come non scorderò l’emozione di incontrare gli special guest intervenuti, l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e il grande Francesco de Gregori. E poi porterò con me per sempre la città, la sua grandezza, il senso di comunione costante, il via vai di gente a qualsiasi ora del giorno e della notte. New York non dorme mai e ha sempre qualcosa da offrire.
New York è una delle città più multietniche al mondo. Qui l’inclusività è di casa?
Chiunque può trovare il proprio luogo. New York è una città libera dove le etnie si incontrano tra loro senza distinzione. È qualcosa che noti subito.
Ci fai degli esempi? L’inclusione pervade la città a partire dai bagni pubblici (in alcuni non ci sono distinzioni di genere) fino all’architettura dei luoghi e dei palazzi. Questa è una tendenza del presente e del futuro. Tra le cose che più mi hanno colpito c’è sicuramente l’Affirmation Tower che sorgerà sul “site K” della città, ad un isolato dalla nota “High Line”, e sarà il simbolo dell’inclusione di sesso e di etnie. Progettato dall’architetto americano David Adjaye, il grattacielo prevede una struttura a parallelepipedi che crescono dal basso verso l’alto. Il significato è proprio l’inclusione: entrerà nella storia perché sviluppato e abitato soprattutto da donne, persone di colore e da tutte quelle “minoranze” spesso ai margini della società.
Consiglieresti ad altre persone di fare questa esperienza? Certamente. In primis viaggiare comporta sempre un arricchimento, in qualsiasi città del mondo. Per quanto riguarda la mia permanenza a New York, l’esperienza della simulazione ti permette di metterti nei panni di quello che i veri diplomatici fanno nella realtà, attività non banale. Non solo, il valore di questo viaggio sta nel poter lavorare con altre persone, diverse per lingua e cultura. In questa occasione ho allenato la mia capacità di leadership e di collaborazione in gruppo. Ecco perché la consiglio.