NESSUN MUSEO È UN’ISOLA - Il valore degli spazi museali nella creazione di immaginari plurali di rappresentazione
Giovanna Brambilla
Una mostra dal titolo virale –TI BERGAMO. Una comunità –, a cura di Lorenzo Giusti e Valentina Gervasoni, restituisce la storia di una città che, in seguito alla pandemia, si scopre comunità e racconta di quali e quant* artist* ne hanno costruito, negli anni, identità e patrimonio culturale. Una classe scolastica che va a visitarla.
Questo il setting di cui vorrei parlare, per raccontare del potere dirompente che hanno i musei nel generare politiche nuove relativamente a generi, fruizioni, opinioni.
Siamo nel mese di ottobre 2020: ancora aperti i musei, ma per poco, ancora possibili le lezioni in presenza a scuola, basate su turnazioni complesse, ma con il divieto di uscire per attività didattiche; così, in una scuola superiore di Bergamo, le classi vengono incoraggiate a esplorare individualmente una mostra. L’ingresso è gratuito, l’esposizione è interessante e anche vicina al sentire della collettività, il museo che l’ha allestita – la GAMeC di Bergamo – ha voluto prestare attenzione alle relazioni con le persone nel costruire questo progetto espositivo, che mescola opere di artist* e produzioni “dal basso”. Ragazzi e ragazze vanno in visita, poi consegnano una recensione, non solo come prova del fatto che alla mostra ci sono davvero stat*, ma anche per raccontare come l’hanno vissuta.
Tra le tante ne spunta una, dal tono diverso, che però ci aiuta a capire come esistano luoghi, considerati vettori del pensiero dominante, che possono agire come motori di cambiamento e rinnovamento.
Riporto uno stralcio di quanto scritto:
“100 (e più) FOTOGRAFI PER BERGAMO
[...] Gli scatti sono più di duecento raccogliendoli dal più conosciuto al meno conosciuto.Tutti possiedono una natura diversa, e anche gli scatti tra di loro sono tutti diversi ma allo stesso tempo insieme, riuniti in una sola sala. Lo scatto di Francesco Anselmi è stato quello che mi ha colpito di più. Raffigura due uomini che si amano, amandosi... c’è questo gesto di tenerezza e puro amore che al giorno d’oggi è difficile da accettare. Si può notare, inoltre, che giocano a rugby e dunque... oltre ad essere compagni di squadra sono compagni di vita. È difficile da accettare? Si. Nonostante tutti i traguardi raggiunti, questo mondo è pieno di odio e, all’interno di un museo di arte moderna, fa la differenza al giorno d’oggi.
Mi ha stupito la spontaneità che possiedono i due uomini. Sono fieri, e non sembrano vergognarsi, sembrano fieri. Ed io sono fiero in prima persona. [...] Mi sono sentito “speciale” nel guardare quella foto, perché è impressionante il passo in avanti che si possa fare, soprattutto in questi contesti. La gente nei miei confronti ha sempre avuto da ridire, e vedere come in un museo due persone si incrociano è assolutamente stupendo. Mi dà tranquillità e speranza in un futuro migliore [...]”.
Queste le parole di uno studente che, tra duecento fotografie, ne ha scelta una ben precisa, commentando con dei pensieri che, per la GAMeC, hanno un significato prezioso. Dallo scorso anno ci stiamo interrogando su come far sentire tutt* a proprio agio in museo, su come evitare una statica accettazione delle convenzioni binarie, attraverso focus, dibattiti, riflessioni di recente pubblicati. È di novembre il primo questionario, diffuso a mezzo newsletter, in cui abbiamo per la prima volta messo, di fianco alle classiche voci “Maschio”, “Femmina”, la possibilità di scegliere anche “Altro”, un altro che ha totalizzato il 10% delle risposte. Ci stiamo muovendo con cautela, consapevoli della delicatezza di molti temi che stiamo dibattendo, ma convinti che un museo, tradizionalmente legato alle muse, a loro volta figlie della dea Mnemosune – memoria – e nipoti di Chronos – del Tempo – debba fare i conti con il fatto che il tempo si svolge, muta, e che la memoria non è del singolo, ma della collettività, responsabile del farsi carico di valori e storie che il museo racconta e rinegozia costantemente. Il nostro tempo deve riconoscere l’individualità di ciascuno, e ogni assenza, ogni vuoto nel potersi identificare e trovare un proprio posto in un luogo della cultura, può dare vita a un abbandono o a un disconoscimento di quel luogo. Per questo un semplice “Altro” in un questionario parla di una porta aperta e di un invito a entrare, per questo la recensione che abbiamo ricevuto, stesa da una persona di diciassette anni circa, dovrebbe farci fermare di colpo. Ci racconta, con la schiettezza e la semplicità tipica di chi ha le idee ben chiare e non deve perdersi in argomentazioni cavillose, perché ha un pensiero limpido, che “vedere” “esposta” in un “museo” un’immagine che celebra la “diversità” legittima il modo con cui si vivono la propria identità, la propria affettività e sessualità.
La GAMeC ospita con naturalezza espressioni artistiche, culturali, biografiche, politiche dalle mille sfumature. Non si tratta di includere, parola che sa sempre un po’ di forzatura, di un’azione unilaterale – il museo che ti afferra e ti tira dentro, senza attivare con te un dialogo di possibilità – ma di dimostrare che, al centro del proprio orizzonte di ricerca, il museo non fa distinzioni, è la casa del mondo, nelle sue differenti declinazioni, è luogo che accoglie le opere di artist* che hanno scelto le arti visive come strumento di narrazione della realtà, dei sentimenti, delle idee con punti di vista che non devono necessariamente trovarsi in armonia, ma devono sollecitare riflessioni, mettere in moto pensieri, fare comparire sentieri nuovi, divergenti, sfidanti da percorrere, contro pregiudizi e conformismi, in tutti i campi.
Non è scontato, ogni museo ha la sua politica, fa le sue scelte, nella piena consapevolezza che quello che esclude dalle proprie mura non è qualcosa che semplicemente non c’è, ma è qualcosa che avrà una presenza segnata dal vuoto, un silenzio assordante. Un ragazzo che mette in evidenza, raccontando la propria esperienza, che ciò che un museo espone viene letto come un segnale di accettazione e normalità traccia una linea per terra, e ci mette in guardia sul fatto che tutte le nostre azioni hanno un peso; se siamo espressione della memoria e della collettività, ogni volta che consapevolmente non esponiamo qualcosa altrettanto lucidamente scegliamo di non trasformarlo in memoria, e esprimiamo un giudizio: non lo consideriamo espressione della collettività. Il museo suggerisce sempre una visione della realtà, e quando protesta una sua neutralità non è sincero.
Abbiamo ancora un lungo percorso, stiamo pensando a narrazioni che coinvolgano esponenti della comunità LGBTQ+ nel raccontare le mostre, uscendo però dal cliché di percorsi autoreferenziali, o legati a iconografie scontate, percorsi che avvicinino più che distanziare, che affrontino i temi della socialità, della malattia, degli affetti, della politica. Non ci si improvvisa, se si desidera fare crescere un dibattito serio. Ma questo ragazzo ha notato qualcosa che per noi, in GAMeC, era forse scontato, perché appartiene al nostro modo di fare, ha puntato un dito su quanto un’opera esposta possa cambiare una vita, aprire una finestra, far girare aria, e raccontare come la cultura s’inveri ogni volta che sostiene la dignità e la persona, e quanto un museo non sia un’isola, lontana dalla terraferma della vita, ma sia sempre, anche inconsapevolmente, specchio di una società, e quindi, nel bene o nel male, luogo capace di promuovere un pensiero critico, attivatore di crescita e pensieri.