MODA SOSTENIBILE E DIFESA DEL PIANETA
Quanto inquina l’industria della moda? Secondo uno studio delle Nazioni Unite l’industria della moda è responsabile di oltre l’8% delle emissioni totali di CO2 ovvero tra i 4 e i 5 miliardi di anidride carbonica immesse in atmosfera ogni anno. Per non parlare di quella che viene definita la sua impronta idrica. Secondo le stime della Ellen MacArthur Foundation, l’industria del tessile e abbigliamento (inclusa la coltivazione del cotone) consuma circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno, un volume pari al 4% dell’acqua dolce globale. L’industria della moda è responsabile dell’inquinamento dell’acqua e delle comunità locali per le sostanze chimiche tossiche e per i coloranti usati. La coltivazione del cotone consuma più pesticidi di qualsiasi altra coltura e l’irrigazione necessaria porta questi pesticidi nei fiumi e nelle falde acquifere circostanti, contaminando in questo modo terra, acqua e cibo.
A contribuire maggiormente all’inquinamento in relazione al settore della moda è sicuramente l’industria del fast fashion, basato sulla rapidità e su materiale scadente. Un altro enorme problema, infatti, riguarda il fatto che l’industria della moda è responsabile del 35% delle microplastiche che finiscono nei mari e negli oceani, equivalenti a circa 190.000 tonnellate di microplastiche all’anno provenienti soprattutto del poliestere usato nella sopracitata fast fashion, o moda veloce, sicuramente l’anello più debole, dal punto di vista ambientale, di tutto il settore della moda. Non dimentichiamo che la moda contribuisce alle forme moderne di sfruttamento lavorativo e di” moderna schiavitù”. Purtroppo, occorre ricordare il crollo del Rana Plaza avvenuto il 24 aprile 2013, quando un edificio commerciale di otto piani crollò a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh. Ci furono 1134 vittime, circa 2.515 feriti furono estratti vivi dal palazzo. Dopo episodi come questo e dopo una nuova consapevolezza introdotta dalla terribile esperienza della pandemia, cresce e si manifesta l’esigenza che la moda non ostacoli gli altri valori della vita sociale come l’ecologia, la dignità del lavoro, la cultura.
La sostenibilità (vedi pag. 138) non è più solo una moda. E nonostante il concetto di moda circolare debba essere ancora perfezionato, sono diverse le piccole e medie aziende che stanno cercando di fare della sostenibilità una componente essenziale del proprio marchio.
Un esempio di quanto appena detto è Chiara Parise creatrice del brand PNLP. Nel 2017 la designer decide di creare una collezione di capi realizzati con i tessuti prodotti nell’azienda di famiglia, con un’attenzione particolare al tema della sostenibilità. Ogni step produttivo è reso noto, il prodotto finale che ne deriva è totalmente Made in Italy. È una collezione “senza stagioni” che segue le logiche della funzionalità e non dell’accumulo dei tempi programmati del fashion system. Un concetto nuovo e contemporaneo di vestire. Si tratta di capi gender fluid con un’identità dinamica e mista tra donna e uomo. La filosofia del marchio si basa su alcune regole di stile: pochi capi basici, versatili, coerenti per stile, colore e tessuto che mixati tra loro possono creare infiniti outfit. I capi sono realizzati con un tessuto pregiato che si chiama Cupro e deriva dalla parte più naturale del cotone, È biodegradabile, eco friendly, sostenibile, traspirante, confortevole. Ha le stesse caratteristiche della seta senza esserne così delicato, ovvero è possibile lavarlo in lavatrice. E a differenza della seta è vegano.
Decisamente all’avanguardia una collezione di vestiti presentata alla Fashion week di Parigi nel 2021 nata dalla collaborazione tra l’azienda automobilistica francese DS Automobiles, il brand di abbigliamento parigino Egonlab e lo studio di design londinese Post Carbon Lab. Gli abiti tecnicamente sono formati da organismi viventi. Il loro rivestimento è infatti composto da alghe, cioè ingredienti naturali come minerali e nutrienti derivati dal lievito. Questi microrganismi viventi puliscono l’aria che ci circonda. E proprio in quanto esseri viventi questi capi vanno accuditi se non si vuole che muoiano o non lavorino male, vanno nebulizzati ogni giorno e posti dove possano ricevere la luce del sole. Il lavaggio è solo a mano con prodotti che rispettino il PH e l’asciugatura necessita di molta aria, luce e calore. Il compito di questi vestiti è quello di assorbire il diossido di carbonio dall’atmosfera e trasformarlo in ossigeno attraverso il processo della fotosintesi clorofilliana. Sebbene al momento i materiali così utilizzati non siano economici né facilmente producibili è evidente che si tratta di un importante lavoro di ricerca che una volta messo a punto potrà rappresentare forse il futuro della moda.
Alcune riflessioni importanti ne seguono, gli oggetti, anche i vestiti, vanno trattati con cura perché sono parte della natura e se trattati a dovere funzioneranno meglio. Noi tutti, i consumatori, dobbiamo evitare di sostenere con i nostri acquisti aziende che producono beni a discapito dell’ambiente e dei lavoratori, dobbiamo rallentare il nostro ritmo di acquisto. Acquistare meno e meglio. Esistono poi diverse alternative allo shopping come il noleggio abiti, il riciclo, antica arte delle nostre nonne di trasformare vecchi capi d’abbigliamento in qualcosa di nuovo, fino al vintage o allo scambio di vestiti. Infine, i nostri governi devono o dovrebbero fare azioni concrete per porre fine all’era della moda usa e getta, incentivare le aziende a produrre in maniera davvero sostenibile, a farsi promotori sinceri della “moda per la terra”.