Leadership femminile
Anna Tavano
La pandemia di Covid-19 ha generato una crisi eccezionale, molto diversa da quella del 2008, a cui viene spesso paragonata. Ci troviamo di fronte a uno scenario del tutto nuovo che ha modificato profondamente abitudini sociali, organizzative e culturali, sia nella sfera della vita privata che in quella della vita professionale, mettendo in discussione quelle che pensavamo essere consolidate modalità di esistenza e lavoro.
A fronte di alcuni cambiamenti di natura transitoria, ce ne sono altri che noi di HSBC ci auguriamo possano perdurare e consolidarsi nel tempo poiché portano benefici al singolo, alle aziende e alla collettività. Mi riferisco all’utilizzo costruttivo delle tecnologie digitali, che ha permesso di lavorare in modalità home working dall’inizio del lockdown ad oggi e che ritengo possa sostenere il cambiamento culturale necessario per una maggiore inclusione delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni apicali.
Perché la questione è sempre quella, purtroppo antica, che riguarda le donne e la difficoltà di essere considerate alla pari dei colleghi uomini quando devono crescere nei ruoli aziendali. Nel settore bancario, se al livello junior la forza lavoro è ripartita al 50% tra uomini e donne, quando è il momento di crescere professionalmente le donne rimangono indietro a causa della difficoltà di coniugare il lavoro con gli impegni familiari. Nonostante anni di rivendicazioni, a livello executive, nella finanza, solo un manager su cinque è donna, spesso pagato molto meno dei colleghi uomini. Alcuni dati ci aiutano a comprendere meglio il fenomeno. Stando alle ultime rilevazioni dell’ILO, le donne italiane si fanno carico del 74% delle ore di lavoro non retribuite dedicate all’assistenza e alla cura della persona, quantificate in cinque ore in media a fronte di un’ora e 48 minuti per gli uomini. In Francia e in Germania questa proporzione è inferiore di oltre 10 punti percentuali (rispettivamente 61% e 62%). Non stupisce quindi che molte donne si trovino a cercare o accettare posizioni part-time o ad abbandonare il proprio impiego. Gli ultimi dati dell’Ispettorato del Lavoro ci dicono che nel 2019 ci sono state 51mila dimissioni di genitori di figli piccoli. In sette casi su dieci a lasciare è stata la madre. In questo scenario si innesta anche la cultura italiana del lavoro, con orari estenuanti, ben oltre la media europea, e la convinzione che più tempo si trascorre in ufficio, più si è produttivi e meritevoli. Questa distorsione incoraggia una selezione basata sul tempo extra che ciascun lavoratore può dedicare alla vita d’ufficio, privilegiando gli uomini rispetto alle donne.
Le cose potrebbero cambiare a seguito di quello che stiamo imparando a causa della pandemia. Se a inizio 2020, in Italia, su un totale di 23 milioni di lavoratori solo 570 mila erano telelavoratori, durante il lockdown, di colpo, questo numero è salito a 8 milioni. L’home working che abbiamo sperimentato ci ha insegnato a lavorare per obiettivi, in maniera flessibile e intelligente. I manager hanno imparato ad esercitare meno controllo, ma più leadership, e la produttività è cresciuta del 4% con possibili ricadute sul Pil di oltre l’1% all’anno (da una ricerca dell’Ufficio Studi PWC). Tuttavia, se la cultura dell’ufficio in Italia è così forte da non aver lasciato prima d’ora spazio alla sperimentazione dell’home working, pur in presenza di un quadro normativo favorevole, come facciamo ad essere certi che alla fine dell’emergenza sanitaria non torneremo alle dinamiche pre-Covid? La risposta risiede nelle tecnologie digitali, intese non solo come strumento operativo ma come vero e proprio abilitatore del cambiamento culturale. Queste hanno contribuito a infrangere la rigidità mentale della maggior parte della classe dirigente italiana, facilitando un’organizzazione del lavoro più fluida e moderna. Contemporaneamente, sono convinta che verrà accelerato quel processo già iniziato, di evoluzione culturale che stempera i preconcetti di genere sul luogo di lavoro e facilita la crescita professionale soprattutto delle donne alle quali viene richiesto il carico maggiore in fatto di organizzazione della vita familiare e lavorativa. Questo cambiamento forse richiederà tempo, risorse e pragmatismo, ma siamo sulla buona strada. Come ha scritto il mio collega James Pomeroy, Global Economist di HSBC, nel suo articolo Pandemic hastens digital economy, “Lavorare da casa, almeno part-time, può diventare la norma e portare a una modalità di lavoro davvero flessibile. Una maggiore produttività potrebbe significare settimane lavorative più brevi. Con meno tempo dedicato al commuting, possiamo dedicarne di più al tempo libero” e io aggiungerei anche alla formazione professionale e alla crescita personale. Credo che questo di oggi rappresenti il momento migliore per riorganizzare il futuro, ma dobbiamo essere consapevoli che questo richiede interventi organizzativi e manageriali precisi e concreti, sui quali si è finalmente aperto un dibattito auspicato da tempo.
Siamo in un’epoca matura, in cui ottenere un bilanciamento vita-lavoro non dev’essere un privilegio, né rivendicarlo può essere motivo di giudizio negativo. Avere la possibilità di scegliere da dove e come lavorare genera maggiore qualità di lavoro e, con il supporto dell’evoluzione culturale già in atto, consentirà alle donne di essere più competitive sul mercato e di non dover abbandonare la propria occupazione, coltivando le proprie aspirazioni di crescita professionale. È un’occasione per tutti, che se governata in modo da garantire il necessario equilibrio tra lavoro in ufficio e home working può generare valore attraverso un aumento della diversity. Mi auguro che le aziende italiane la colgano concretamente, senza paura.