
LE PROTESI STAMPATE IN 3D ARRIVANO NEL NORD-EST DELLA SIRIA GRAZIE A “STAFFETTA SANITARIA”
Avete avviato un progetto molto interessante di stampa delle protesi per le persone mutilate dalla guerra. Com’è nata l’idea?
Nel nord-est della Siria (NES) c’è solo un ambulatorio che produce le protesi e il tempo di attesa medio è di cinque anni. È una procedura complicata perché lì la guerra va avanti da decenni e il terreno è pieno di mine che continuano a esplodere. Inoltre, le tecnologie non sono affinate, quindi accade che le protesi pronte dopo anni non vadano (più) bene. Così, tra modifiche e aggiustamenti, passa moltissimo tempo. Ci sono anche tant3 bambin3, che naturalmente crescono molto in fretta, così gli arti artificiali non durano più di qualche mese prima di perdere la loro adeguatezza. Molto del tempo impiegato è dovuto anche al modo di produzione lungo e dispendioso in termini di tempo e risorse: in Siria le protesi sono prodotte in legno.
L’idea nasce dal desiderio di aiutarl3 a velocizzare la produzione.
Quali sono gli obiettivi di questo progetto?
Il nostro obiettivo è quello di sviluppare delle protesi degli arti superiori e inferiori a supporto del laboratorio ortopedico di Qamişlo, in Siria. Ci siamo mess3 in contatto con loro e il nostro primo passaggio è stato acquistare due stampanti 3D identiche: una per noi e una per loro, che gli è stata spedita. Abbiamo predisposto delle video-lezioni online e scritto dei veri e propri manuali pronti all’uso.
Abbiamo avviato questo processo di trasferimento delle competenze, ma è ancora in corso perché non è semplice. Questo anche a causa della barriera linguistica: loro parlano solo curdo e i processi di traduzione dall’inglese sono difficili, per di più ci muoviamo all’interno di un linguaggio tecnico.
Stampare le protesi in 3D non dev’essere semplice, quale procedura avete seguito?
Abbiamo iniziato sperimentando. Il primo modello di mano che abbiamo stampato è il più diffuso al mondo perché è molto semplice sia da stampare sia da montare. Ha anche un vantaggio non banale: non è una protesi fissa, ma con il braccio teso la mano si chiude, questo consente di afferrare alcuni oggetti.
Abbiamo spedito questo primo modello in Rojava, ma ci hanno detto che risultava poco antropomorfo; quindi, abbiamo cercato di affinare la forma della mano, proseguendo per tentativi ed errori.
Perché pensi che sia un progetto importante? E perché avete deciso di realizzare le protesi proprio attraverso la stampa 3D?
Dobbiamo fare una precisazione: le protesi costano tantissimo, sia qui, sia lì. Sicuramente queste in 3D non sono all’avanguardia in termini futuristici, sul mercato ci sono modelli eccezionali, che arrivano a costare anche ventimila euro (e alimentano il privilegio di classe).
Dobbiamo tener conto delle circostanze e del contesto geografico entro cui ci muoviamo perché la tecnologia occidentale non è universale. Ad esempio, molte protesi mobili vanno a batterie, ma nel NES sono irreperibili, quindi una volta scariche, sarebbero inutilizzabili. Il nostro obiettivo principale è fare in modo che possano essere autonom3 e indipendenti, per quanto riguarda la produzione e la manutenzione.
Far arrivare materiali e attrezzature lì non è semplice, a causa dell’embargo e della guerra.
Il nostro processo di sperimentazione è costante perché quando realizzi qualcosa in 3D ci sono aspetti a cui devi fare molta attenzione, come i parametri di stampa. Devi decidere in modo molto preciso: quanto materiale usare, quali parti lasciare cave e quali riempire, in modo da trovare un equilibrio con il carico sollevabile e ottimizzare tempi e costi.
Quali materiali usate? Quali sono i vostri progetti futuri?
Usiamo tre tipi di filamento: il classico PLA, che è anche ecologico perché deriva dal mais; il PETG che è abbastanza duro e il TPU, più morbido, che usiamo per le giunture fra le dita. Mi è venuto in mente un aneddoto: avevamo stampato alcune prove da far arrivare nel NES e le avevamo poi affidate a due volontarie che stavano andando in Rojava. Avrebbero dovuto portare le protesi all’ambulatorio, invece le hanno consegnate a un signore che aveva bisogno proprio di quelle protesi.
A breve andremo nel NES per insegnargli direttamente sul posto a realizzare le protesi in 3D con la loro stampante nell’ambulatorio.
Dovremmo anche iniziare a sperimentare con gli arti inferiori, che in realtà sono quelli più richiesti, a causa delle mine (prodotte anche dall’Italia) che continuano a esplodere.