LE PAROLE DEL SENTIRE COMUNE

02 Ott 2021

di Alex Pantanella

Alzi la mano chi non ha mai detto o sentito dire frasi come “Ma mi segui, o sei sorda?”, oppure “Sembri sorda come mia zia Erminia”. Possiamo dire che sono, purtroppo, parole abbastanza comuni. 

E che ruolo ha il linguaggio che utilizziamo nel perpetuare o aiutare a superare gli stereotipi e lo stigma che ancora oggi circondano il tema dell’udito e del calo uditivo? 

Per rispondere a questo interrogativo e per individuare linee guida di lavoro, è stato realizzato un progetto di ricerca, nato dalla collaborazione tra il Centro Ricerche e Studi dell’azienda Amplifon e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, grazie al terreno di incontro creato da Diversity & Inclusion Speaking (organizzazione che si dedica alla diffusione e alla ricerca in tema di linguaggi inclusivi). 

Progetto di cui sono personalmente molto fiera, proprio per l’attenzione che ho deciso di dedicare alle parole che fanno quel sentire comune, a cui spesso prestiamo meno attenzione di quanto sarebbe utile fare. 

Iniziamo con qualche numero. Oggi il fenomeno del calo uditivo interessa 7,3 milioni di persone (il 12% della popolazione italiana) ed è destinato a crescere del 55% nei prossimi 30 anni, arrivando a coinvolgere 11 milioni di persone. Se a questi numeri aggiungiamo anche la rete familiare e amicale (che può essere coinvolta) possiamo immaginare la portata - a livello di numeri e non solo - che questo fenomeno comporta. 

Eppure, è un tema di cui si parla ancora poco. E questo fa sì che se ne sappia poco: ad esempio, quante persone hanno sentito parlare di “ipoacusia” o “presbiacusia”, termini che identificano rispettivamente l’abbassamento della capacità uditiva legato a cause diverse e la riduzione della capacità uditiva, specificatamente dovuta all’aumento dell’età? 

Il parlarne poco o, meglio, il parlarne attraverso alcune terminologie ricorrenti, fa anche sì che si perpetuino, appunto, distanza e stigma che, invece, un cambio del linguaggio può aiutare a superare. 

Le evidenze della ricerca “Le Parole del Sentire Comune” - condotta in due fasi e coordinata dalla Prof.ssa Claudia Manzi, Ordinaria di Psicologia Sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - consentono di trarre conclusioni chiare su questi aspetti. 

Nella prima fase della ricerca, già pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale “The Journal of Language and Social Psychology”, si è analizzato come il tema del calo dell’udito sia rappresentato sui mezzi di informazione, analizzando oltre 650 articoli pubblicati sulla carta stampata e nel web in Italia, nell’arco di due anni. 

Quello che è emerso è che il tema del calo uditivo legato all’età (presbiacusia) è poco trattato sulla carta stampata, che si concentra invece sulle tematiche legate alla sordità o, in generale, alle situazioni di difficoltà uditiva nelle generazioni più giovani. 

In più, l’analisi testuale ha evidenziato, spiega Manzi che “il linguaggio giornalistico si discosta molto da quello colloquiale, prediligendo l’utilizzo di un lessico ricco e articolato dove prevalgono termini medici, tendenzialmente freddi (es. paziente, ipoacusia, acufene, disturbo, malattia)”. 

La seconda fase di ricerca aveva l’obiettivo di comprendere se e come il linguaggio tecnico/medicalizzante, utilizzato dai media, potesse influenzare gli atteggiamenti nei confronti del calo dell’udito e delle soluzioni acustiche. I risultati non lasciano dubbi: le persone mostrano atteggiamenti più favorevoli quando leggono un articolo su questo tema scritto in un linguaggio colloquiale e comune, piuttosto che tecnico-medicale. 

Lo studio ha voluto anche analizzare il ruolo del linguaggio utilizzato dalla classe medica nell’affrontare questo argomento. 

Ecco il risultato: quando si interagisce con il personale sanitario, l’utilizzo di un linguaggio tecnico, che include parole mediche, favorisce atteggiamenti positivi nei confronti del tema e delle soluzioni possibili. 

Quindi, per chi è nel mondo del giornalismo e ha l’opportunità di raggiungere un’ampia fetta di popolazione coinvolta dalla tematica, il consiglio è di farlo utilizzando parole che avvicinino e familiarizzino, sostituendo “paziente” con “persona”, “disturbo/malattia” con “condizione”, “ipoacusia” con “riduzione/ calo” (non perdita) dell’udito. 

Per la classe medica, da cui ci aspettiamo una rassicurazione più tecnica-medicale, bene, invece, usare un linguaggio che vada in questa direzione. 

E, per tutte le altre persone che si trovano a fare battute sul sentirci poco, fermiamoci un po’ di più a chiederci se sia una battuta che fa veramente ridere. O se, forse, fa ridere solo noi. 

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