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«LAVORIAMO PER UN MONDO MIGLIORE»

Stefano Piziali torna in CESVI come Direttore Generale. E in un’intervista ripercorre il suo percorso, i cambiamenti, le nuove crisi e barriere, l’impegno dell’ONG nel mondo e in Italia
A cura di Michela Offredi
03 Gen 2024

Piziali, lei torna in CESVI, e con un nuovo ruolo, dopo unassenza di diversi anni. Quale è stato il suo percorso? Quali emozioni la accompagnano?

Il mio percorso professionale è profondamente legato ai temi della cooperazione, dello sviluppo e dell’aiuto umanitario. Ho lavorato una ventina di anni per CESVI, fra il 1993 e il 2013, occupandomi prevalentemente di programmi di emergenza e di questioni legate alla sicurezza degli operatori, ma anche dello sviluppo di policy del settore in cui CESVI stava operando. Nel 2013 ho accettato un’interessante proposta di WeWorld per seguire i programmi in Italia e in Europa dell’organizzazione. Ormai tutte le grandi realtà non governative lavorano anche nel nostro Paese perché ci sono bisogni e questioni urgenti da affrontare. In questi dieci anni, che sono stati molto interessanti, ho avuto la possibilità di sviluppare importanti programmi soprattutto sui temi cari alla vostra rivista, in particolare quelli della parità di genere e della violenza sulle donne. Un’altra esperienza significativa è stata quella che ha portato alla fusione di WeWorld con GVC. Dopo la richiesta del Consiglio di Amministrazione di CESVI di tornare, ho accettato molto volentieri questo nuovo incarico perché più che un ritorno mi sembra un nuovo inizio. 

Come ritrova CESVI?

È profondamente cambiata, cresciuta. Si è rinforzata dal punto di vista dei contenuti e della presenza in diversi Paesi. È ormai una realtà che lavora in Italia e mondo, è fortemente collegata con una serie di attori internazionali ed è parte di uno dei più importanti network non governativi, Alliance2015. Ma è soprattutto un’organizzazione che vuole continuare a fare cooperazione nell’emergenza e nello sviluppo. Fare cooperazione nell’emergenza vuol dire riconoscere che in certi Paesi ci sono ormai le capacità di risposta. Il sostegno degli attori internazionali deve essere quello di rendere gli attori locali sempre più protagonisti rispetto ai bisogni dei territori. Ma fare cooperazione significa anche lavorare al superamento dei confini, delle barriere, e costruire progetti condivisi. L’obiettivo è dar vita a un mondo dove tutti possano vivere meglio.

Come è cambiato il mondo in questi dieci anni?

Viviamo nel tempo delle cosiddette «policrisi» o, come ha detto Papa Francesco, in quello della Guerra mondiale a pezzi. Nel mondo contemporaneo le questioni economiche, ambientali e politiche sono sempre più intrecciate. E purtroppo spesso sfociano in conflitti armati. CESVI in questi dieci anni è riuscito a posizionarsi, e continua a farlo con una visione sempre più chiara, nelle crisi prolungate che caratterizzano il nostro tempo. Siamo in diversi Paesi del Medio Oriente e nel Corno d’Africa. Siamo poi in conflitti recenti come quello in Ucraina. Anche se ormai ha una rilevanza nazionale, CESVI è nata a Bergamo e, grazie alla nostra azione, la città si è gemellata con Bucha. Ma siamo pure in crisi di cui nessuno parla. A causa del tracollo del loro Paese molti venezuelani vivono in Colombia, in campi di accoglienza o in forme alternative. CESVI è una delle poche organizzazioni che sta seguendo questa emergenza. Siamo inoltre fra i pochi attori che lavorano in Libia per garantire forme di accoglienza dignitose a donne, bambini e giovani, in collaborazione con le Nazioni Unite. 

Questo numero di DiverCity parla di confini. In quali si colloca lazione di CESVI?

Siamo in una fase in cui le barriere, i confini e i sovranismi hanno riacquistato una forza incredibile. E ne siamo testimoni. Ogni giorno, in tanti Paesi nuove barriere, limiti, nuovi impedimenti e fatiche provano a contrastare il nostro operato indipendente, imparziale, neutrale. Le organizzazioni umanitarie come la nostra, che sono non governative, devono comunque dialogare con i governi. A volte questo è molto faticoso, talvolta ci vogliono anni per avere l’autorizzazione, la conseguenza è che i progetti partono con grande ritardo. Le potenzialità spesso sono limitate da forme di controllo e da ostacoli di natura burocratica, fiscale, economica. 

Un altro aspetto che vediamo crescere è l’incapacità globale di gestire il fenomeno delle migrazioni. Paradossalmente non è un numero elevato in termini di percentuale, eppure il mondo è incapace di affrontare questa situazione. La vive come un’emergenza continua. In realtà è la quotidianità. Le persone hanno il diritto di cercare delle alternative e queste devono essere costruite in modo ordinato, devono essere governate. Il punto non è l’esistenza di confini, è la mancanza di regole condivise per gestire i problemi. La tendenza è quella di rifiutare il dialogo, il compromesso, il confronto. A maggior ragione quindi servono organizzazioni non governative o della società civile che esprimano valori globali, che vadano al di là delle differenze. Se viene meno il sogno che sta alla base delle Nazioni Unite, il rischio è di trovarsi in crisi come quella della Palestina. I civili diventano allora, non le vittime occasionali del conflitto, ma il target principale, sia del terrorismo di Hamas che della reazione militare di uno Stato.

Voi siete in Palestina da tanti anni. Qual è la situazione?

Ci stiamo con orgoglio dal 1994. In modo particolare ci occupiamo di progetti per l’accesso all’acqua. Sappiamo quanto in Palestina sia un fattore divisivo. Offriamo dei filtri per la potabilizzazione dell’acqua sia in West Bank che a Gaza. Il nostro staff valuta con le comunità il bisogno e realizza l’intervento “chiavi in mano”, formando anche gli operatori soprattutto in scuole, centri di salute, talvolta anche nei condomini o con le singole famiglie. Sono progetti che, nella crisi attuale, sono di estrema attualità. Già prima del conflitto, in Palestina solo il 4% dell’acqua era potabile. Quello che sta accadendo sta devastando le infrastrutture per cui ci auguriamo di avere la possibilità di poter riprendere presto la nostra azione. Gli operatori locali di CESVI sono ancora a Gaza e siamo molto preoccupati per la loro sorte. Abbiamo sottoscritto insieme a centinaia di organizzazioni umanitarie un appello che riporti, al primo posto della riflessione, il passaggio necessario del cessate il fuoco. Dopo quello sarà indispensabile costruire un percorso che consenta l’accesso agli aiuti umanitari, quindi l’individuazione delle situazioni di bisogno più drammatiche. E naturalmente non si può non contemplare un’azione di giustizia per tutte le vittime. 

Fingiamo di non accorgerci che anche in Italia, nelle nostre città ci sono molti, infiniti confini.

La pandemia di Covid ha colpito in particolare l’adolescenza e il mondo dei giovani. CESVI ha aperto in Italia, in continuità con l’estero, delle Case del Sorriso. Sono luoghi in cui diamo vita a forme di accoglienza adatta ai giovani e ai bambini, rispondendo ai bisogni specifici del territorio. Nel contesto dell’emergenza, anche all’estero, operiamo perché si presti attenzione al disagio psico-sociale con forme di protezione per minori colpiti da traumi. Anche nelle nostre Case di Siracusa, Napoli, Bari e Milano cerchiamo di affrontare questo problema. Siamo però anche attenti al fenomeno dei cosiddetti Neet, che si è ulteriormente aggravato con la pandemia. Grazie a Intesa Sanpaolo e con il programma Formula individuiamo, accompagniamo e rendicontiamo diversi progetti in tutti i territori italiani. Ogni trimestre attiviamo progetti sul tema delle fragilità sociali ed economiche che coinvolgono bambini, giovani, famiglie e anziani, oppure iniziative in ambito green o di rigenerazione urbana. E queste sono solo alcune delle tante azioni che ci vedono presenti e attivi anche sul territorio italiano. 

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