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L’ARTE DI TRASFORMARE I LIMITI IN CONNESSIONI

A cura di Matteo Lanfranchi
03 Gen 2024

Immaginate di non esserci più. 

Sì, proprio in quel senso lì. 

È con questa proposta che dal 2019 accolgo i visitatori e le visitatrici di After/Dopo, un progetto sulla contemplazione della mortalità che ho realizzato con il gruppo di ricerca artistica da me fondato, Effetto Larsen. Da artista impegnato nel campo dell’arte relazionale, mi stava particolarmente a cuore proporre un modo di esplorare il limite dell’esistenza in grado di coinvolgere senza costringere, far riflettere senza sconfortare, includere senza travolgere. 

I visitatori e le visitatrici di After/Dopo sono chiamati e chiamate a svolgere lungo il percorso delle attività con cui lasciare tracce del proprio passaggio. L’insieme di queste tracce costituisce l’opera d’arte. L’unica condizione per affrontare il percorso è, appunto, immaginare di non esserci più. 

Le attività sono semplici: si può dare risposta a delle domande posando delle pietre sul pavimento, dicendo sì con una pietra a destra, e no con una pietra a sinistra. Ci pensi mai? Ti fa paura? Pensi sia la fine di tutto? Pensi potrai stare vicino alle persone a te care dopo? Si può scrivere tutto ciò che si lascerebbe ora, in questo momento, dividendolo in categorie come beni materiali, dati digitali, sentimenti, relazioni, cose in sospeso, segreti e cose imbarazzanti. Si può disegnare una mappa delle proprie relazioni come se fosse una costellazione nel cielo, e ancora, attraverso un telefono rosso, è possibile registrare un messaggio per le persone care. Ci si può stendere su un tappeto di foglie, per ascoltarsi e ascoltare cosa accade nel corpo. 

All’inizio del percorso, le persone sono molto concentrate su di sé: dove mettere i sassi, cosa scrivere sui biglietti, come tracciare la costellazione delle relazioni. Dopo un po’ cominciano ad alzare lo sguardo, ad accorgersi di cosa hanno lasciato gli altri e le altre, a leggere le loro tracce. Scoprono vissuti e desideri simili ai propri, o talmente lontani da essere complementari. Scoprono di nascondere segreti imbarazzanti che in realtà, tanto segreti o tanto imbarazzanti non sono. Scoprono modi diversi di intendere la mortalità da cui imparare, o da cui prendere le distanze. Realizzano che le stesse esperienze possono essere vissute con emozioni differenti. 

Un po’ per volta si accorgono di star condividendo qualcosa che va oltre la loro individualità, sperimentando il piacere di accogliere pensieri ed emozioni altrui, di integrarli, alimentando così la consapevolezza di una dimensione collettiva. La profondità dei contributi lasciati dalle persone diventa stupefacente nel momento in cui si realizza che non si tratta, appunto, di tanti singoli contributi, ma di un’unica opera, resa possibile dall’immaginare un confine e dal farlo insieme

Grazie alla qualità della loro presenza, i visitatori e le visitatrici hanno conferito una sorta di sacralità al percorso, portando il progetto ben oltre le nostre aspettative iniziali. Ci siamo resi/e conto di aver costruito un dispositivo che rende possibili un linguaggio comune e un pensiero condiviso sulla mortalità: in una sola parola, un rituale. 

Una richiesta, in particolare, ha cambiato profondamente la visione dell’arte per me e per le persone con cui collaboro: diversi/e partecipanti hanno manifestato il desiderio che l’installazione restasse sempre aperta come un nuovo servizio pubblico permanente, un rituale collettivo per la contemplazione della mortalità da costruire e fruire insieme. 

Abbiamo capito in quel momento di aver intercettato un bisogno inespresso della società. Non solo: ci siamo resi/e conto di poter farlo emergere, esprimere, dargli forma creando un tempo e uno spazio a lui dedicati attraverso uno degli strumenti più efficaci per coinvolgere l’essere umano: l’arte. Un linguaggio che merita più spazio nelle nostre vite e nella nostra società. 

Leggendo le tracce lasciate lungo il percorso si scopre che le persone parlano quasi esclusivamente delle proprie relazioni. I/le partecipanti si ritrovano quindi ad esplorare il loro rapporto con le altre persone, un confine che viviamo tutti i giorni senza quasi accorgercene: quello che ci separa, che ci divide, che ci fa dimenticare la possibilità di costruire senso, ritualità, comunità.

È scientificamente provato che la qualità delle nostre relazioni è l’elemento della nostra vita che più di ogni altro influenza il nostro benessere, eppure è la risorsa che più diamo per scontata. L’arte ha il potere di valorizzarla: solleva le regole abituali, crea uno spazio dove è lecito infrangerle, dove possiamo lasciarci coinvolgere su ogni piano: cognitivo, emotivo, fisico e, perché no, spirituale. Siamo soliti/e concederci queste aperture solo in contesti precisi: una mostra, un concerto, una sera a teatro. Esperienze come quella di After/Dopo, e tante altre insieme a lei, ci mostrano come sia necessario integrare l’approccio artistico nel nostro quotidiano per rispondere ai bisogni più profondi. 

Quando mi chiedevano cosa facessi di mestiere, spesso rispondevo ironicamente che per lavoro unisco puntini e persone. After/Dopo mi ha mostrato cosa mi sta veramente a cuore: ciò che accade tra le persone, la possibilità di recuperare senso di comunità. Mi ha anche regalato un job title che amo molto: da allora sono un manutentore di relazioni. 

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