LA PAROLA IDENTITÀ
La parola identità è tra quelle che, apparentemente intuitiva, a una analisi più ravvicinata si dimostra invece insidiosa.
Tendenzialmente convergiamo sul principio di identità affermato da Aristotele, in base al quale una cosa è uguale a sé stessa. Identità, del resto, viene dal latino identitas, che a sua volta viene da idem, lo stesso. Questa affermazione presenta però dei limiti, soprattutto quando la applichiamo a un essere umano: l’essere umano, infatti, è per natura instabile; per gli esistenzialisti, il suo esistere è una ex-sistenza, dove ex designa uno sporgere, la condizione di proiettarsi continuamente oltre, di non poter mai coincidere con sé stessi. A partire da Freud, abbiamo poi imparato che dentro di noi abitano numerose istanze psichiche: per parlare di identità di un essere umano con sé stesso, sarebbe quindi anche arduo stabilire cosa dovrebbe coincidere con cosa. Va poi considerata la dimensione del tempo: noi cambiamo, ci trasformiamo, acquistiamo nuove identità in continuazione. L’identità è dunque più nell’ordine, diacronico, della continuità di un modo di essere e della fedeltà che in quello, sincronico, della coincidenza e dell’uguaglianza in senso aristotelico.
La ricerca del nostro sé più autentico, della nostra identità appunto, può essere considerato il compito di una vita. Jung tracciò un parallelo tra la ricerca del sé e le pratiche alchemiche, entrambi percorsi di trasformazione e affinamento verso qualcosa di estremamente prezioso. La traduzione della ricerca del sé in termini alchemici ci dice anche che la nostra identità è qualcosa di talmente unico da non poter essere descritto o raccontato con le parole, che sono astratte e universali. La nostra identità più profonda è indicibile: possiamo intuirla, sentirla, trasporla in immagini complesse come quelle dei sogni, ma non esaurirla in un discorso.
C’è poi una dimensione sociale dell’identità. Nominata, una classe di persone è ricondotta a un gruppo: le donne, le mamme, gli uomini eterosessuali, le persone cieche, quelle vegane, coloro che esercitano una determinata professione, ecc. Nominare una classe di persone è il presupposto per includerle in un discorso e questo può avere implicazioni tra loro molto diverse.
Il discorso può essere uno strumento per emarginare, stigmatizzare, assoggettare a una logica di dominio un gruppo di persone; gli esempi sono innumerevoli: pensiamo agli omosessuali (soprattutto fino a qualche decennio fa) o alle persone immigrate. Il richiamo a un’identità può anche essere uno strumento per far coincidere la persona con una delle sue caratteristiche, così di fatto mortificandone l’umanità, visto che l’essere umano per definizione ha innumerevoli risorse, sfaccettature e potenzialità. È quello che accade, ad esempio, quando identifichiamo coloro che hanno una disabilità con la loro disabilità, e ancora oggi sentiamo parlare di “disabili” invece che di “persone con una disabilità”; a livello individuale è un’operazione forse riconducibile a quella che Sartre definì come “mala fede”, in quanto concentra l’attenzione su un aspetto, ignorando (sebbene inconsapevolmente) tutti gli altri che pure sono noti.
L’identità soggettiva (quello che noi sentiamo o pensiamo di essere) e oggettiva (quello che la società ci lascia intendere o ci dice che siamo o dovremmo essere) non sono peraltro realtà autonome: noi ci autopercepiamo secondo gli schemi che gli altri usano per classificarci e, parallelamente, concorriamo a costruire e affermare quegli stessi schemi. Bourdieu, l’autore del Dominio maschile, ha messo in luce come i gruppi dominati (es. le donne) tendano a percepirsi secondo categorie imposte dai gruppi dominanti (per rimanere al nostro esempio, gli uomini) e, nella convinzione che questi schemi percettivi siano dati di natura e non meri costrutti simbolici, tendono ad accettarli e perpetuarli come qualcosa di immutabile, anche se è proprio da essi che discende la loro posizione di svantaggio.
Il discorso che si basa sull’identità non è solo uno strumento che può soggiogare. Può essere anche un potente motore di liberazione. Ciò che non ha un nome, infatti, non è riconoscibile, rischia di finire in un cono d’ombra. Sempre Bourdieu ci ricorda che “il potere di imporre il riconoscimento dipende dalla capacità di mobilitarsi intorno a un nome”. Attraverso il riconoscimento di un’identità una persona può sentirsi parte di un gruppo, non isolata, può mettere in dialogo il proprio modo di essere, rivendicare diritti e protezione, può affermarsi, condividere il proprio mondo e così concorrere alla costruzione di un mondo comune.
L’identità è strumento di liberazione quando la usiamo con consapevolezza, contrastando i rischi che il suo uso comporta. A livello personale, questo implica fare propria l’identità, interpretarla rifuggendo dai clichés, inclusi quelli che potremmo aver inconsapevolmente introiettato, coscienti che il nostro modo di viverla ha certamente un valore nella sua unicità. A livello istituzionale, e quindi anche nell’ambito di un’azienda che intenda affermare i valori di D&I, questo implica puntare sull’unicità delle persone prima ancora che su alcune delle loro caratteristiche, non fermarsi alle politiche di tipo assistenziale ma entrare in una logica di empowerment, prendere consapevolezza dei privilegi impliciti di cui godiamo proprio in virtù delle nostre identità.