LA FORZA DELLE IMMAGINI, IL RISCHIO DEI SIMBOLI

06 Giu 2022

di Fabio Palermo,

HR Leader Pharma Janssen Italia
HR DE&I Champion, Johnson & Johnson Italia

Qualche mese fa mi trovavo, insieme alla mia famiglia, nella città di Madrid. Era stata una piccola vacanza ricca di significati, arrivata dopo un lungo periodo senza la possibilità di viaggiare e resa più complessa (solo per noi adulti) dalla presenza felicemente ingombrante di un bambino di quasi tre anni. Io, la mia compagna e nostro figlio, dopo qualche giorno insieme in questa splendida città, eravamo appena arrivati a destinazione dopo un viaggio che ci aveva portati attraverso un paio di linee della metropolitana fino all’ingresso dell’aeroporto.

Eravamo perfettamente in orario rispetto ai programmi e stavamo pianificando le tappe successive: consegna valigia, controlli, la ricerca di uno spazio che ci potesse consentire di approntare un bel pranzetto fatto di piccoli ma succulenti avanzi del giorno prima, fieri di raccontare a nostro figlio
l’importanza del non spreco.

All’improvviso un piccolo incidente di percorso: nostro figlio ha da poco scelto di non mettere più il pannolino e tutto il trambusto tipico di una partenza forse non gli ha permesso di intercettare lo stimolo di una pipì. Una volta recuperato il cambio dalla valigia, andiamo alla ricerca del bagno più vicino: mi incarico di accompagnarlo io. Una volta di fronte alla porta del bagno, noto che è presente sulla porta il simbolo di un fasciatoio. Do uno sguardo alla serratura per verificare la disponibilità e poggio la mano sulla maniglia per aprire.

In quel momento mio figlio si blocca sui suoi piedi e mi dice: "Fermo papà, tu non puoi entrare! Qui può entrare solo la mamma”. Mi fermo interdetto anche io: dapprima sguardo nel vuoto, poi mi guardo attorno e infne guardo mio fglio per cogliere nelle pieghe della sua espressione ciò che mi sfugge, ma senza alcun successo. Quindi, con fare imbarazzato gli chiedo: “…In che senso amore? Scusa, ma non ho capito…”. E lui, quasi incredulo, indicando l’etichetta sulla porta mi risponde “Ma papà, nel disegno c’è una mamma con la gonna non un papà: qui può entrare solo la mamma…”. Una volta realizzato il cortocircuito cognitivo, improvvisamente vedo la quantità di livelli di senso che quel momento ci stava offrendo.

Di quale mi sarei dovuto occupare? Da quale prospettiva avrei dovuto guardare?
La mia, di padre che sente la responsabilità di educare al rispetto dell’alterità e che combatte gli stereotipi ogni giorno? O forse la sua, di bambino assetato di conoscenza e curioso di vivere, sentire e capire il mondo per quello che si vede e non per quello che si interpreta? O dalla prospettiva
della nostra relazione, del nostro essere un nucleo fondato sul rispetto e la comprensione dei punti di vista? Mio figlio stava guardando l’immagine (papà qui non puoi entrare, non sei la mamma dell’immagine), io guardavo il simbolo (entriamo qui, perché qui posso cambiarti con facilità): avevamo ragione entrambi.

Ed è così che abbiamo affrontato la questione.
Quella immagine della mamma che cambia il pannolino rappresenta una realtà parziale: del resto anche lui non è come il bambino dell’immagine, col pannolino, eppure aveva compreso che quella immagine rappresentasse tutti i bambini. L’immagine rappresenta una parte della realtà, e potrebbe esserci anche tanto altro che non si vede, ma c’è.

Lezione acquisita, per entrambi.
Questa esperienza, semplice e potente, mi interroga sulla responsabilità che abbiamo (non solo come adulti nei confronti dei bambini, ma anche come adulti nei confronti di altri adulti) di farci carico di ciò che comunichiamo ancor prima delle parole, delle immagini, dei suoni, delle espressioni del nostro viso, di ciò che vogliamo comunicare e di ciò che non vogliamo comunicare più.

La società in cui viviamo attraversa un momento di grande fermento a tutti i livelli, e senza voler dare una connotazione a questo movimento, non possiamo far finta di non vedere quante sensibilità sono toccate, quante coscienze sono sollecitate, quante vite sono impattate dai cambiamenti che questi tempi ci evocano, ci richiamano, ci invitano a prenderci cura di ciò che sta accadendo.

In un momento come questo, la targhetta di un bagno, o quella che indica un fasciatoio per mamme e non per papà, non saranno al centro di una rivoluzione; saranno destinati ad essere meno importanti di molte altre situazioni. Ma non possiamo ignorare l’importanza che questioni come quelle sollevate dai simboli, dal signifcato che portano. Non ci serve una “maggioranza” di persone interessate per occuparcene. Ci serve invece recuperare un senso di collettività, di società che si prende carico di tutt*.

E questo prendere in carico, signifca anche assumersi la responsabilità collettiva di cambiare quelle immagini che non sono solo parziali, ma non descrivono affatto la realtà, non più. È una chiamata ad agire, una sensibilità rinnovata che aiuti a superare le divisioni, a favorire l’accoglienza, a generare un serio e misurato confronto, a stimolare la curiosità, per ambire alla convivenza rispettosa e libera su questa terra che nonostante si faccia di tutto per appropriarsene, in fondo è davvero di tutti. Esattamente come le nostre città.


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