LA FAMIGLIA QUEER CHE SCEGLIAMO: UNA RIVOLUZIONE CONCETTUALE DI MICHELA MURGIA
Che il concetto di famiglia, inteso come la società italiana vuole a tutti i costi farci intendere, nasconda qualche scheletro nell’armadio, è ben noto nella letteratura grazie al celebre incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj che recita: Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Senza voler essere fatalistə sul concetto di famiglia, è chiaro come la felicità descritta da Tolstoj sia una facciata dietro la quale si nascondono problemi e tabù che la Russia del XIX secolo (e non abbiamo fatto troppi passi avanti) cercava in tutti i modi di tenere segreti. Siamo realistə: la famiglia è composta da minimo due persone (o forse dovrei dire due esseri viventi) e in quanto organismo plurale ha bisogno di tante variabili per trovare un suo equilibrio. Oggi più che mai però è importante ragionare su cosa intendiamo per “famiglia”, perché non possiamo accontentarci di ascoltare solamente coloro che si attivano per i suoi diritti, appiccicandoci in maniera poco velata l’aggettivo tradizionale, con la volontà di escludere tutto ciò che non rientra nella logica del “padre/ madre/figliə”. Se vogliamo un approccio più inclusivo, dobbiamo essere dispostə a scendere in piazza per ottenerlo.
Ed è proprio di vedere il suo libro impugnato dallə ragazzə alle manifestazioni, che si augurava Michela Murgia quando scriveva il suo saggio God save the Queer, la stessa Murgia che in tutta la sua letteratura ha portato avanti una logica non binaria del concetto di famiglia, partendo certamente dal suo vissuto personale di Famiglia queer.“Per crescere un bambino ci vuole un villaggio”; questo detto africano penso sia la frase che mi ha colpita maggiormente tra le pagine di Dare la vita, saggio postumo pubblicato nel 2024 da Rizzoli, perché non avrei avuto bisogno dei dati riportati di seguito (25 mila donne all’anno dopo il parto decidono di lasciare il lavoro e una donna su quattro decide di non avere figliə) per sapere che nella maggior parte dei casi è la donna nella famiglia tradizionale a pagare lo scotto del desiderio comune di allargare il nucleo. Io stessa mi sono interrogata a lungo sul desiderio di essere madre (che a detta delle altre persone dovrebbe essere nascosto dentro di me da qualche parte e forse è stato inglobato dalle miecellule endometriali) e sono arrivata alla conclusione che non me la sento di mettere in stand-by la mia vita professionale per avere unǝ figliǝ biologicǝ in un mondo dove moltə bambinə sono senza genitori. La situazione, tornando al detto africano, potrebbe cambiare se la donna, ancora intrappolata nel suo ruolo di cura, potesse contare non solo dell’aiuto di un bravo papà o, se l’età lo permette, di quei-quell santə nonnə, ma di un vero e proprio villaggio, di una famiglia scelta.
Il concetto di Famiglia queer, coniato, come già detto, da Michela Murgia, non viene affrontato solamente nei due saggi che ho già citato, ma lo ritroviamo tramite il suo personale lessico famigliare all’interno di altri romanzi dell’autrice: Accabadora (Einaudi, 2009) e Chirù (Einaudi, 2015), in molte interviste e in alcuni post sul suo profilo Instagram (@michimurgia) intitolati Queering the family. Murgia si è definita membro di una famiglia fatta di legami altri, dove ciò che conta non è chi scopa con chi, ma il senso di responsabilità e di affetto che lega delle persone che non hanno legami di sangue. Madre d’anima di quattro ragazzi, sposa (nel senso sardo del termine) di varie persone, moglie in articulo mortis di un solo uomo – controvoglia e solo perché l’Italia non è ancora pronta ad accettare la rivoluzione famigliare – Murgia ci lascia in eredità la libertà di scegliere la famiglia a cui sentiamo di appartenere, senza il timore di poter deludere qualcunǝ; ci ricorda che un “ci penso io” vale più di mille “ti amo” e che l’aiuto reciproco all’interno di una dimensione familiare altra può veramente portare alla felicità.
Capisco che non sia facile uscire dalla logica binaria, dalle infinite difficoltà legislative che questo tipo di scelta potrebbe portare e metto le mani avanti preventivando molti se e ma.
Per rincuorare tuttə, sappiate che, almeno etimologicamente, la parola “famiglia” deriva dall’osco “faama”, che significa “casa”, e quindi forse basta solo avere lo stesso tetto sopra la testa per definirsi famiglia, o, ancora meglio, la famiglia sono quelle persone con cui ti senti a casa, e lo dice chi a trentatré anni vive serenamente con un coinquilino e una gatta.