Numero 3Cover story

Intervista a Rose Cartolari

It starts with me
A cura di Valentina Dolciotti
01 Giu 2019

Domanda da un milione di dollari.

Perché un’azienda dovrebbe investire in qualcosa di cui non vedrà il risultato – se non a lungo termine – che implica parecchia fatica, richiede cambiamenti collettivi e personali e che apparentemente non ha nulla a che vedere con il proprio business?

– Because the world is changing at such a rapid pace, and uncertainty and instability are now part of the business landscape. Today company leaders need to be able to do two things. One: manage and maximize profits and results today. Two: create a sustainable and viable future for the long term. It’s no longer an option to do one or the other. We have to do both. The only way we can make sure we can innovate for the future, grow in the future, find ideas in the future is to create a pipeline of talents and ideas that are able to envision different types of future scenarios and come up with solutions that may fit those potential developments. And so we need to have a diverse workforce. Then…
– aggiunge Rose con un sorriso – if they also want to have a positive impact to the world, because is the right thing to do… no one will complain –.
È il 2 di aprile e finalmente c’è il sole. Un sole poco convinto, schiacciato in mezzo a una settimana di pioggia. Lascio borsa e registratore su un tavolo all’esterno del piccolo locale monzese dove Rose ha dato appuntamento e mi dirigo verso la cassa. Mi avvicino ma con la coda dell’occhio noto una vetrina laterale, così cambio direzione. Abituata a vedere cornetti e brioches resto letteralmente a bocca aperta davanti all’esplosione di dolci esposta: pancake, waffle, donut, muffin, cookie, brownie, cheesecake, cupcake… insomma: american sweets.
– Ma tu non sei americana, dico bene? – domando a Rose, che mi ha raggiunta e fissa la vetrina sorridendo.
– No, non esattamente… –

La storia di Rose è insieme singolare e ordinaria, come la storia di ciascuno di noi.

È nata nel 1964 a Nuova Delhi, da una coppia di genitori che – avvenimento insolito per gli anni Cinquanta in India – si sposò per amore. Al tempo, infatti, la maggior parte dei matrimoni era combinato, invece il padre (originario di Kerala, insieme ai suoi 11 fratelli) e la madre (originaria di Goa, 7 tra fratelli e sorelle) si sono incontrati a Delhi, durante gli studi universitari, e si sono innamorati. È stata l’unica unione non programmata in entrambe le famiglie. Dopo il matrimonio il padre è diventato direttore operativo di un’azienda, la madre docente universitaria. Dopo pochi anni (quando Rose aveva cinque anni) il padre iniziò a lavorare per l’ONU e questo cambiamento trasformò la vita della famiglia. Rose ha infatti frequentato la scuola internazionale in Indonesia (Paese dove il padre svolse il primo incarico diplomatico) fino al compimento dei 12 anni, entrando in contatto con un contesto vario ed elevato.
– Nella seconda metà degli anni Settanta frequentavo il liceo e d’estate andavo in vacanza al mare, in Somalia, dove papà era diventato resident representative dell’ONU. Quasi non mi resi conto che lì era in corso una guerra. Poi ho sentito papà piangere, l’ho visto portar via i bambini da scuola caricandone sei alla volta in auto per salvar loro la vita e ho sentito per la prima volta le parole terrorismo e rifugiati –. (La guerra dell’Ogaden fu un conflitto combattuto durante il 1977 tra Somalia ed Etiopia per il possesso della regione omonima, NdR).

È il 1980, Rose ha sedici anni compiuti, una cotta per un ragazzo saudita di nome Jihad e un fratello più piccolo, quando il padre viene nuovamente trasferito, stavolta a New York; e tutta la famiglia vola con lui verso la Grande Mela.
E negli States Rose concluderà liceo e università (in una delle Ivy League, titolo che accomuna le sette più prestigiose università private degli Stati Uniti d’America) laureandosi in Economia & Relazioni Internazionali e frequenterà due master, Management e Marketing, dove conoscerà il futuro marito.

– La mia migliore amica era cubano-americana. Il mio fidanzato all’università era italoamericano. A scuola mia mamma insegnava indossando il sari, il professore di francese vestiva l’abito tradizionale senegalese e gli americani portavano tutti i blue jeans. Questo è il contesto in cui sono cresciuta. Non mi sono mai sentita diversa poiché tutti eravamo diversi. Ero donna, di colore, straniera, ma pur avendo visitato parecchi posti nel mondo non mi ero mai resa conto di far parte di una minoranza. Fino a quando sono arrivata in Italia –.

È il 1995 quando Rose decide di trasferirsi in Italia insieme al marito ed iniziare un’attività imprenditoriale, nonostante il marito l’avesse allertata su una certa chiusura mentale della gente, rispetto alla loro vita a New York. E nonostante a Monza alcuni vicini di casa, nei primi tempi, la credessero “la donna di servizio”. E nonostante per strada, mentre spingeva il figlio nel passeggino, pensassero fosse una baby-sitter e una volta chiarito l’equivoco, non contenti, le domandassero: – Ma se tu sei la mamma, come mai il bambino è bianco? –. Insomma. L’impatto non è stato indolore ma Rose aveva forza d’animo, ottimismo, e soprattutto le competenze per affrontare la situazione. Il cambiamento è sempre un processo, mai un traguardo. – Do you know the Overton Window?

– domanda Rose.
La cosiddetta finestra di Overton è uno schema di comunicazione ideato da Joseph P. Overton negli anni Novanta. Si tratta di uno spazio concettuale, diviso in sei fasi che descrivono lo spostamento dell’opinione pubblica rispetto a un’idea. Grazie alla finestra di Overton si possono costruire (e sono state probabilmente costruite!) moltissime campagne di comunicazione di massa per favorire alcune idee quando non erano ancora accettate dalla società. Positive o negative che fossero.
Le sei fasi sono: 1. inaccettabile; 2. radicale (vietato ma con eccezioni); 3. accettabile; 4. sensata (razionalmente difendibili); 5. diffusa; 6. legalizzata. Una volta individuata la finestra di partenza in cui si trova l’idea è necessario farla progressivamente slittare verso la finestra successiva, fino all’accettazione totale.
- A lot of what my life has been is a sort of human Overton Window, pushing people to expand what is they considered normal or allowed to be discussed –.
Parlare con Rose apre continuamente fenditure di conoscenza, scorci di sapere che non basterebbe una vita, forse, per approfondire. L’insolito background fa di lei oggi una professionista affermata ed ambita. Seguendo due binari paralleli, per quasi 30 anni si è occupata sia di marketing, sales, HR (lavorando per American Express, UNICEF, Scharper – azienda farmaceutica europea gestita insieme al marito –, …) sia d’insegnamento (è stata docente presso la Columbia University Business School di New York, SDA Bocconi School of Management e Università Bicocca, entrambe a Milano). Membro del Forbes Coaches Council, Leadership Advisor ed Executive Coach con due recenti specializzazioni in Neuroscienze e in Intelligenza Emotiva/Agilità Cognitiva, Rose lavora con amministratori delegati e leader di grandi aziende.
– I leader di oggi hanno buone qualità tecniche ma non tutti hanno l’abilità di guidare le generazioni attraverso il cambiamento. Il mio ruolo li supporta nell’adattare le abilità che già posseggono, acquisire o migliorare nuove capacità, come sviluppare un growth mindset diventare il motore del cambiamento in azienda, quando raggiungono un’età in cui è oggettivamente più difficile cambiare. Se una volta la dote più importante, per un leader, era saper organizzare l’azienda, comandare e controllare, ora invece un leader deve saper ispirare e motivare. Ma è difficile lavorare su se stessi.
È molto più facile pagare (e tanto!) per installare nuovi sistemi che si attivano premendo un bottone, dove non è richiesto un cambiamento personale, una trasformazione di se stessi. – Invece

– prosegue Rose – it starts with me. I have to do it. L’inclusione richiede un cambiamento personale ancor prima che culturale organizzativo. Ogni cambiamento culturale arriva dalla somma del cambiamento dei singoli individui; è per questo che, in un’Azienda, l’impegno del Ceo è imprescindibile –.
Rose, quindi, si occupa di change management, transformation. Forse è anche per questo che è “allergica” ai programmi di Diversity basati soltanto su quote, numeri e rappresentanza. Perché non è avendo più donne o più stranieri che la situazione migliora. È includendo donne e stranieri che si beneficia realmente della loro presenza che, altrimenti, resta una statistica. Queste persone devono aver voce nelle ricerche di mercato, nel discutere la strategia aziendale, nel considerare i trend. Il valore della diversità sta nell’aver accesso ad altre idee che, in un gruppo di eguali (con lo stesso background ad es.), non avremmo mai conosciuto. Servono molteplici punti di vista per guardare il mondo, per leggere i segnali deboli del mercato, per afferrare in tempo problemi da risolvere. E la diversità non è solo una questione di gender, di etnia o provenienza geografica. È diversità di pensiero, di vedute, di modalità nell’apprendere e nell’esprimersi. In azienda spesso si sente dire: noi assumiamo persone brave. Ma cosa significa “brave”? Che pensano come me? Che hanno il mio stesso profilo? Le aziende, oggi, devono essere brave ad adattarsi al mondo poiché il mondo cambia velocemente ed è sempre più integrato. Per cui di deve investire su dipendenti che non hanno paura di parlare, condividere, creare e disfare.

Gli studi certificano che chi ha aziende composte “diversamente” ottiene migliori risultati. Che ne pensi?

– Ma no! – esclama Rose. –Non serve avere una donna dirigente se il suo parere non ha peso. È come dare una festa aperta a tutti, ma invitare solo alcuni a ballare. Bisogna lasciare spazio e voce. Liberare conoscenze e competenze altrui. Includere intenzionalmente e deliberatamente. If you are not actively including people you might as well be excluding them. We like causality and direct correlation but D&I non è una linea retta, è un processo iterativo, in parte invisibile –.

Quest’ultimo sembra possa essere uno dei motivi per cui le politiche di D&I faticano a prendere piede in Italia. Ne vedi altri? –

– Il fatto che alcune diversità vengono percepite e vissute come un limite. Ad es. l’essere giovane. O disabile. O, addirittura, l’essere donna.

Penso inoltre che D&I non dovrebbe rientrare nel cappello operativo delle Risorse Umane o, almeno, non limitarsi a quello. L’inclusione non è un benefit aziendale. È una presa in carico del CEO, deve far parte della strategia di business dell’azienda e trasversalmente toccarne tutti i settori. In America questo sta cambiando, now divessity is moving from being only an HR issue to a strategic business issue. In today’s world, talent is becoming a very scarce asset. Do you want keep the best talents, do you want to innovate? Devi circondarti di persone che danno il loro meglio. È tuo compito quindi creare per loro un ambiente di sicurezza psicologica. Come? L’unico modo è l’inclusione. Le Risorse Umane un tempo si occupavano di amministrazione. Oggi devono necessariamente focalizzarsi sulla talent maximization, because Inclusion is one of the big driver of innovation” –.

E cosa ostacola il cambiamento personale?

– Stereotipi e pregiudizi, ad esempio –.

E come eliminarli?

– Le neuroscienze ci insegnano che se hai un cervello, hai pregiudizi e stereotipi. È inevitabile. Quindi è utile avere più teste e più pareri che ragionano su un medesimo argomento. È nel lavoro di gruppo che i bias si affievoliscono. Nell’interazione tra persone diverse possiamo mitigarli. So, people always have bias, you can’t take them out, but… se le persone non possono essere senza bias, il processo può esserlo –.

A che punto del percorso di D&I si trovano le aziende italiane, a tuo avviso?

– Ognuna su un gradino differente direi. C’è chi ha appena cominciato, chi lavora da anni sulle politiche d’inclusione, chi non sa come approcciare il tema, e chi dichiara che D&I sono argomenti opzionali, un non-tema se i profitti sono positivi.
Ma se ora in Italia ci sono ancora molti lavoratori stranieri che ricoprono un ruolo sociale basso e poco integrato, la nuova generazione è alle porte! I/le giovani che si stanno laureando oggi saranno la classe dirigente domani, le università sono già multi etniche, e lo sono i licei, le scuole medie ed elementari…
I giovani sono alle porte e spingono. Spingono il cambiamento. L’Italia è sempre stato un Paese di artigiani e imprenditori, ricco di cultura e creatività e sono tante le PMI che stanno cercando di dare più voce ai giovani. L’inclusione è un processo iterativo, come già detto. Bisogna fare, rifare, provare, sbagliare, ripartire avendo imparato qualcosa in più. E così via –.

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